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Tu con Zero – Le interviste

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Gli incontri di Lettera Zero: Cinzia Tani – “Angeli e carnefici”

(trascrizione della videointervista del 22 aprile 2021)

Vito Santoro: Angeli e carnefici rappresenta un ulteriore tassello in quella storia delle donne che libro dopo libro Cinzia Tani sta creando. Lo fa attraverso due binari di scrittura: uno è quello del romanzo storico che vede delle donne come protagoniste e l’altro quello delle biografie femminili, testi in cui Cinzia Tani dimostra le sue grandi abilità di narratrice dal momento che unisce la ricerca scientifica, la ricca documentazione e la narrativa agli strumenti che solo la letteratura può dare.

Con Angeli e carnefici siamo di fronte a ventidue biografie, ventidue donne che sono divise in coppie. La caratteristica principale è che in ognuna di queste coppie ritroviamo un angelo e una carnefice, che spesso condividono sia l’anno che il luogo di nascita. Questo perché alla base di questo libro c’è un interrogativo: quali sono gli elementi che finiscono per determinare un comportamento umano? Il luogo, la famiglia? Cosa c’è dunque dietro le azioni più turpi e dietro quelle più nobili? Ecco questo è un po’ l’interrogativo che percorre tutto il libro. Ci troviamo di fronte ad una serie di ritratti molto interessanti in cui Cinzia Tani mostra tutte le sue abilità.

Ogni capitolo è strutturato nel seguente modo: c’è un corsivo di presentazione, un Io narrante che entra nella mente del personaggio in questione attraverso quella meta-psicosi che la letteratura è in grado di produrre e poi abbiamo il racconto del personaggio, o quelli che sono i suoi rapporti personali e con l’ambiente, facendo ricorso ad una ricca mole di documenti. Il libro gode, infatti, di una ricchissima bibliografia internazionale e degli strumenti della narrativa: la scrittrice utilizza il discorso diretto quando necessario e gli effetti di tensione per tenere il lettore avvinto al libro.

Angeli e carnefici è un libro di oltre quattrocento pagine che si legge con piacere, con grande rapidità e grande curiosità perché introduce molte riflessioni nuove oltre ad un gran numero di interrogativi. Inoltre, molte delle persone presenti nel libro, sono personalità che hanno ispirato il mondo del cinema, pensiamo ad esempio ad Isadora Duncan e il suo film con Vanessa Redgrave, o al film La fiamma del peccato con Ruth Snyder. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un libro estremamente prezioso con cui Cinzia Tani riesce a raccontare la storia, entrare nei personaggi e fare della storia una vera e propria narrazione, questa è senza dubbio un’attività pluriennale di Cinzia Tani particolarmente riuscita.

Cinzia Tani: Per questo libro sono partita da un desiderio e uno studio, mi sono chiesta: “Noi siamo figli dei nostri géni, ovvero dei géni che ereditiamo dai nostri genitori? Oppure siamo figli dell’ambiente in cui viviamo, dell’educazione che ci hanno dato?”. Per questo motivo ho fatto un lungo elenco di donne eccezionali e ho cercato di abbinarle con la nascita nello stesso anno a delle spietate assassine. Alla fine sono riuscita a trovare undici coppie in cui una si è rivelata una stella nella musica, nella scienza, nella politica e nell’arte e l’altra invece si è rivelata un’assassina. Questo per porre al lettore una domanda: “Come mai secondo voi questa donna ha sviato e l’altra ce l’ha fatta?”. Si è rivelato un modo con cui approfondire la storia delle donne in modo un po’ diverso, cercando sempre di colmare dei vuoti nella storia della narrazione del femminile.

Vito Santoro: Una delle caratteristiche di questo libro è la scelta della letteratura, entrare nella testa di figure come Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, figure eccezionali, ma al tempo stesso comprendere anche le assassine più spietate. Come ha pensato dunque a questo tipo di esercizio?

Cinzia Tani: Come già ha anticipato, io alterno i romanzi storici alla bibliografie femminili. Per quanto riguarda i romanzi storici sono una scrittrice un po’ particolare, dico sempre di essere una scrittrice con i piedi nel senso che vado a fare dei lunghi sopralluoghi nel posto in cui è ambientato il romanzo per cogliere i sapori, i profumi e le atmosfere. Ho infatti scalato il Perito Moreno, un ghiacciaio in Patagonia, per il libro Il capolavoro. Qui la mia protagonista era una guida su questi ghiacciai, sono stata spesso in Australia, in Alaska. Invece per quanto riguarda le biografie, come si vede dalla bibliografia finale, io leggo tantissimi libri e vedo tantissimi libri perché voglio entrare nella vita del personaggio e ne voglio parlare in un modo anche un po’ cinematografico raccontando le scene, non voglio scrivere una biografia noiosa con date, luoghi ecc. Voglio che si senta la donna, la si veda fare i primi passi da bambina: che genitori aveva? erano affettuosi? Il padre era violento, un alcolista? Era bella, brutta, accettata a scuola? Si è innamorata, non lo ha fatto? Tutto questo per me è molto importante per entrare nella testa della donna di cui parlo e poterla raccontare. Ci sono naturalmente molti discorsi diretti che spesso non ci sono nella biografie: io li ho cercati nelle lettere, nelle autobiografie, nelle confessioni; ho cercato dunque qua e là dei dialoghi che potessero snellire il racconto della biografia perché non vorrei mai che un racconto sia noioso: a me piace il racconto che si legge tutto in un fiato, almeno quello della coppia. Molti lettori mi hanno detto di non riuscire a leggere soltanto la biografia della stella ma di doverla sempre associare all’assassina in modo tale da poter fare dei confronti.

Vito Santoro: Un aspetto che colpisce molto è che nel libro le donne positive, ovvero gli Angeli, hanno tutte una caratteristica: sono tutte estremamente volitive. Si vede, dunque, la capacità della donna di superare tutte le difficoltà anche le più estreme. Abbiamo tutte le donne più rivoluzionarie: Rosa Luxemburg e la filosofa Hannah Arendt che poi viene sottoposta ad una serie di attacchi per la sua partecipazione al processo Eichmann , la pasionaria spagnola Dolores Ibàrruri. O pensiamo al film Anna dei miracoli  ispirato alla storia vera della Helen Keller, produzione italiana. Questo aspetto è evidenziato anche nella prima pagina del libro con le dichiarazioni delle varie donne poste a mo’ di epigrafe: la donna è capace di affrontare molto più dell’uomo le difficoltà più estreme.

Cinzia Tani: Questo è giustissimo, nel senso che non me ne sono resa conto scrivendo ma poi, alla fine, ho capito che c’era un filo conduttore che unisce tutte le storie degli angeli e forse è proprio questo che manca alle altre donne. Le donne “stelle”, gli Angeli, hanno avuto quasi tutte delle enormi difficoltà iniziali, innanzitutto economiche: Isadora Duncan era poverissima, seguita dalla madre, dormiva persino nel parco di Londra sulle panchine e cercava degli ingaggi per andare a ballare nelle case delle signore ricche per avere dei soldi. Greta Garbo: un padre alcolista, la pasionaria spagnola figlia di minatori cresciuta in un paesino, quando le sono nati i figli non aveva nulla da far mangiare loro, neanche il latte. Sono donne che hanno sofferto all’inizio ma avevano una passione, le politiche avevano una passione ideologica quindi politica: Hannah Arendt aveva la passione per la filosofia e in più era ebrea perseguitata; Billie Holiday aveva la passione per il canto, anche lei poverissima, e ha dovuto prostituirsi da ragazzina; la pasionaria spagnola una passione politica, Rosalind Franklin una passione scientifica, Tina Modotti una passione artistica. Si tratta dunque di donne che hanno superato gli ostacoli per la loro passione. Sono state aiutate dalla loro passione, cosa che però non è successo alle assassine. Queste ultime donne spesso emarginate, bistrattate, con genitori severi che spesso dicevano “sei cosi brutta che non ti prenderà mai nessuno”. Si tratta di donne che non hanno avuto una strada e hanno introiettato questa rabbia che poi le ha fatte esplodere.

Vito mi hai ricordato uno sceneggiato di quando ero piccolissima, Anna dei miracoli: quel film è stato trasmesso alla Rai con Anna Proclemer e Cinzia De Carolis. Una storia che non ho mai dimenticato: Helen Keller, bambina cieca, muta e sorda. Vuol dire che lei non aveva nessuno strumento per realizzarsi eppure diventa una grande scrittrice e conferenziera, viaggia in tutto il mondo, diventa un’attivista per i diritti dei disabili, una donna eccezionale.

Vito Santoro: Tra le altre cose in epigrafe c’è una frase di Rosalind Franklin “Sono disposta a vivere in modo ancora più primitivo se fosse necessario a preservare la mia libertà”. Frase che sottolinea la necessità di questa donna di combattere a tutti i costi e andare necessariamente avanti. La scelta di procedere per coppie ha portato in evidenza delle esclusioni.

Cinzia Tani: All’inizio avevo fatto un lungo elenco di donne eccezionali e volevo inserirne alcune ma non trovavo il corrispettivo. Non trovavo l’altra donna nata nello stesso anno e che fosse una malvagia e quindi c’è stato un momento in cui ho detto “c’è soltanto un anno di differenza, magari imbroglio e cambio l’età all’assassina tanto nessuno se ne accorge perché le assassine sono meno conosciute”. Alla fine però non l’ho fatto e per questo ho lasciato perdere alcune donne che mi sarebbe piaciuto raccontare, tra queste Maria Montessori.

Vito Santoro: Infatti la presenza italiana è abbastanza minima nel libro.

Cinzia Tani: C’è anche un motivo: devo dire che anche quando scrissi Assassine la presenza italiana non era così evidente. Questo perché secondo me la biografia in Italia non ha avuto quel successo, non ha quella tradizione che ha per esempio nei paesi anglosassoni dove le biografie sono fondamentali. Anche per scrivere queste storie ho trovato pochissimo materiale biografico in Italia, magari su Isadora Duncan c’è un libro, su Tina Modotti c’è qualcosa ma sulle altre pochissimo. In America e in Inghilterra ho trovato invece tantissimi libri su queste donne, libri che mi hanno permesso di fare dei confronti. Per cui anche quando ho scritto Darei la vita, il libro precedente a questo sulle donne, della moglie di Verdi o dell’amante di Puccini io ho trovato in Italia pochissimo materiale nonostante fossero italiane.

Vito Santoro: Un’altra cosa: la descrizione delle donne assassine non può che finire col prevalere rispetto a quella delle donne positive, questo naturalmente perché il delitto crea molto più fascino. Giusto?

Cinzia Tani: Questo mi è stato detto da alcune lettrici prima ancora che il romanzo uscisse. “Preferisco leggere prima le storie delle assassine perché mi interessa maggiormente il lato oscuro della psiche umana”. Ed a queste ho risposto: “Guardate che non è così perché se voi leggete gli angeli non è che sono tutte storie buoniste, anzi. Queste donne-angelo hanno avuto dei punti neri nelle loro vite: Billie Holiday, ad esempio, è stata prostituta, era alcolizzata e drogata, si è scelta sempre uomini violenti, ha avuto una vita veramente complicata. Queste donne sono state veramente fallimentari dal punto di vista sentimentale, hanno avuto una marea di uomini ma mai quello giusto. Tina Modotti ha avuto come amanti tutti i dirigenti del partito comunista, la Ibárruri, la “pasionaria”, un’icona per il partito comunista si perde alla fine con un ragazzo molto più giovane di lei, viene criticatissima e quando lui la lascia lei si vendica anche in modo abietto, Greta Garbo aveva un carattere impossibile, tanto che alla fine si chiude nei bunker, non vuole essere seguita, ripresa, fotografata e intervistata e alla fine lascia addirittura il cinema. Tutte queste donne che sono riuscite a realizzarsi, quindi, non hanno una vita lineare e semplice. Pensiamo anche alle morti: Isabella Duncan alla fine si strangola con la sciarpa che rimane impigliata in una ruota della Bugatti in cui era appena salita, Tina Modotti, dopo una vita pazzesca, tra la guerra civile spagnola e il suo ruolo da spia in Russia, esce da una casa in cui c’è una festa, sale su un taxi e muore nel taxi, tanto che l’autista si accorge che sia morta e non capisce come mai. Non sia, in sostanza, di fronte a storie di vite semplici, bensì a vicende intrecciate.

Vito Santoro: Difatti si nota abbastanza chiaramente già, a mio avviso, dalla copertina poiché la foto della Dunkan vista da lontano pare quella di un ritratto di una figura negativa, come se volesse palesarsi come l’emblema di un chiaroscuro che poi si ravvisa un po’ in tutto il libro.

Cinzia Tani: Questo l’ho notato anche io. Quando mi è arrivata la copertina, scelta dall’editore, io ho detto: “Ma guarda, avranno trovato la foto di una delle assassine. Poi, quando mi sono resa conto che era Isabella Dunkan, che vediamo sempre in un altro modo, con questi veli, ho capito che avevano scelto un viso accostabile ad entrambe le cose e questo è giustissimo proprio perché io non divido il male e il bene con un’accetta, poiché nelle esistenze degli angeli ci sono stati episodi oscuri così come in quelle delle carnefici ci sono stati eventi positivi, con amori e successivi figli, ed effettivamente la copertina inquadra in maniera calzante il romanzo.

Vito Santoro: Ora una domanda alla Cinzia Tani professoressa della Sapienza: nei tuoi corsi di “Storia sociale del delitto” che hai impartito per un certo periodo, come è stato messo in evidenza questo rapporto tra gente comune e cronaca nera?

Cinzia Tani: Allora, io posso dire ormai di essere una storica della cronaca nera. Io vivo in una casa con 20.000 libri, davanti a me ho un’immensa libreria solamente per il true crime, il crimine vero, il crimine storico. Per cui il corso, che era a Sociologia, voleva evidenziare dei fenomeni criminali come il femminicidio, gli omicidi commessi dalle donne nel passato perché, con l’emancipazione femminile tutto cambia e quindi la società cambia totalmente il delitto. Ho parlato molto anche dei delitti dei giovani e di diversi crimini divisi per argomenti, proprio perché spiegando la società e l’epoca storica, io poi potevo parlare di un determinato fenomeno nel delitto. Ad esempio, i serial killer perché in Italia così pochi e in America così tanti? Da dove proviene questo fenomeno? Sappiamo che si sviluppa soprattutto in società molto industrializzate, nell’emarginazione di alcune persone nelle megalopoli, nelle grandi città come New York, Los Angeles e molto meno a Roma o Milano; ecco, io raccontavo i delitti ma ne parlavo focalizzandomi anche sulla città. Per esempio, noi durante il periodo fascista non abbiamo potuto parlare di cronaca nera perché era proibito, ma subito, alla fine di quest’epoca ci sono stati tre casi importantissimi di delitti: Rina Fort, Leonarda Cianciulli (passata alla storia come “la saponificatrice”) e Pia Bellentani che hanno fatto scalpore e nei tribunali arrivava una marea di gente addirittura dalle campagne, senza scarpe, tutto pur di vedere l’assassina; era veramente un fenomeno esploso perché la gente voleva dimenticare gli orrori della guerra e “divertirsi” a vedere un processo per un delitto, quasi come si trattasse delle esecuzioni pubbliche in Inghilterra, che una volta erano letteralmente giorni di festa. La cronaca nera, quindi c’è sempre stata, così come l’attenzione morbosa a lei rivolta anche se chiaramente declinata in maniera diversa da epoca in epoca.

Vito Santoro: Vediamo ora quelle che sono le figure presenti nel libro. Ad esempio, c’è una coppia particolarmente curiosa, anche estrema, quella della filosofa ebrea Hannah Arendt e quella di Ilse Koch che è, appunto, una delle belve delle SS. Due donne provenienti dalla Germania dello stesso periodo che, però, hanno fatto scelte completamente diverse. Tra le altre cose, inserisci anche un altro elemento interessante, cioè quello del ruolo delle donne all’interno del regime nazista, che era un ruolo importante ed esecutivo, a differenza di quanto avvenuto in Italia col fascismo, dove le donne rivestivano per lo più il ruolo di amanti. Mussolini ha avuto tante donne ma non era assolutamente a favore di queste ultime, ad esempio.

Cinzia Tani: Verissimo e, devo dire, credo che quella sia una delle coppia riuscite meglio per il fatto che entrambe siano nate lo stesso anno ed entrambe in Germania e vissuto il nazismo in modo diverso: Hannah Arendt era ebrea e quindi era perseguitata e poi esiliata, aveva una grande passione per la filosofia tanto da divenire una grandissima filosofa e scrivere il famosissimo La banalità del male e, tra l’altro, è stata anche criticata dagli stessi ebrei per aver scritto, sul famoso processo ad Eichmann, che era stato una specie di show e che avrebbero dovuto gestirlo in maniera differente, non in Israele; in più, viene criticata dai dirigenti ebrei per non aver reagito adeguatamente al genocidio degli ebrei e per tutte queste ragioni non possiamo non definirla una donna estremamente forte. Ilse Koch nasce nello stesso ambiente, solo che è una ragazzina molto superficiale, molto bella, che non vuole impegnarsi, che passa da un amante all’altro affascinata dalle divise delle SS, fino a diventare l’importante sposa del comandante di Buchenwald. A questo punto, la donna acquista potere e comincia a dar sfogo alla sua furia omicida, uccidendo prigionieri e facendo tagliare i loro tatuaggi per farne dei paralumi. Figura analoga è quella di Irma Grese, altra donna bellissima che si macchia di crimini atroci all’interno dei campi di concentramento, cosa da non dormirci la notte. Quindi è vero, le donne nel nazismo hanno avuto davvero una grande importanza, al contrario di quelle del fascismo.

Vito Santoro: Daniela Porcelli ti chiede: ”Isadora Dunchan era una donna piena di sensibilità, inventò la danza moderna, ma frequentava il poeta Esenis, alcolizzato. Il confine tra il bene e il male, secondo la scrittrice è così netto o al contrario l’ influenza della società fa sì che non siano così definiti?”.

Cinzia Tani: Bellissima domanda! Io non sono assolutamente d’accordo sul tracciare un netto confine tra male e bene, anche perché abbiamo adesso parlato della “banalità del male” e considerate che alcune persone che hanno fatto del male erano persone apparentemente normali. Non sentiamo sempre dire, quando si parla di un assassino “Ah, ma era un uomo così gentile, il vicino perfetto! Portava a spasso il cane, era affettuoso con i figli” e poi ha massacrato con una sedia elettrica a martellate la moglie. Mengele, il medico che faceva esperimenti atroci sui bambini durante la Shoah, era un uomo elegante, amava la musica classica, amava la sua famiglia, i cani, gli animali; per cui effettivamente non c’è questa netta divisione, magari ci fosse!  Anche Isadora Dunchan era innamorata del poeta mezzo matto Esenin e, tra l’altro, è un grande dolore per lei quando lui si suicida buttandosi da un albergo a San Pietroburgo. Sugli amori hanno sbagliato tutte queste donne: Billie Holiday voleva veramente degli uomini violenti, lei si innamorava solo di uomini violenti che poi la facevano drogare, bere, la picchiavano eppure lei continuava a scegliere uomini della stessa pasta. Non si può quindi dire che queste donne-angelo abbiano avuto delle vite specchiate e neanche che tutte le donne-assassine abbiano vissuto un’esistenza interamente malefica, ma ciò che io voglio esaltare negli angeli è la passione, il talento che le porta a realizzarsi, a impegnarsi nella vita, a superare gli ostacoli, le difficoltà e a farcela. Ad esempio Freya Stark, una donna che fino ai cento anni ha viaggiato da sola, attraversando deserti, salendo sull’Himalaya a novant’anni coi dolori alla schiena… beh, quando leggo di una vita del genere io rimango estasiata, eppure la Stark sposa un uomo omosessuale, tutti ne sono a conoscenza eppure lei non se ne accorge. Per cui no, il male e il bene non sono separati totalmente ma sono per lo più sfumati.

Vito Santoro: A proposito di Isadora Dunkan, sono molto belle le pagine che tu dedichi al suo rapporto con Gordon Craig, straordinario teorico del teatro del Novecento, colui che riflettuto sull’attore come super-marionetta. Sono pagine talmente belle che hanno anche il merito di far conoscere questa figura che un lettore comune, non esperto, potrebbe non conoscere.

Cinzia Tani: Certo, per lei Craig era un mentore, era fondamentale nonostante i litigi, le discussioni e le successive riappacificazioni, Questo è infatti successo a tante di loro: queste donne hanno avuto qualcuno (che poteva essere una madre piuttosto che un amante). C’è sempre stato un mentore per gli angeli, a differenza delle donne-carnefici.

Vito Santoro: A proposito di donne straordinarie, questa volta dal punto di vista politico come la Ibàrruri: ho notato che ci sia stata una maggiore ferocia rispetto ai corrispettivi maschili.

Cinzia Tani: Devo dire che è sempre così, come ad esempio le critiche fatte alla Ibàrruri per essersi invaghita di un uomo più giovane, come se lei non avesse il diritto di esprimere i propri sentimenti romantici ma dovesse essere semplicemente una politica tout court, a differenza degli uomini a cui veniva concesso di tutto. Loro erano molto più criticate da tanti punti di vista: Rosalind Franklin, la famosissima scienziata che scopre la struttura del DNA, è in un ambiente talmente tanto maschilista che, quando Watson e Crick le rubano la sua scoperta e prendono il Nobel non citandola neanche, addirittura la descrivono come “brutta, con gli occhiali spessi, antipatica, dalla femminilità mascherata, arrogante e prepotente”, cose che non avrebbero scritto mai per un loro collega. Per cui sì, effettivamente le donne hanno dovuto faticare il doppio per affermarsi, in quanto dovevano superare anche tutti questi pregiudizi.

Vito Santoro: Uno dei casi che viene descritto nel libro è quello di Edith Thompson, un caso pazzesco nella sua violenza.

Cinzia Tani: Quello è un caso che mi sta a cuore perché, avendo raccontato tante storie di assassine, lei non era un’assassina ed eppure è stata condannata a morte perché donna in epoca vittoriana, epoca in cui l’adulterio femminile veniva considerato un crimine  contro l’uomo e contro la società. Cosa succede? Che lei, ragazza intelligente, bellissima, che lavora con un marito noiosissimo e possessivo, si innamora di un giovane marinaio ed esprime il suo desiderio di liberarsi dal marito ma lei, che era una specie di Madame Bovary in quanto avida lettrice di romanzi d’amore, scrive al marinaio che è fuori con la sua nave di aver allenato il porridge del marito e di aver messo dei pezzetti di vetro di una lampadina. Ma ciò che scrive non corrisponde a realtà: dall’autopsia si è poi, infatti, scoperto che non ci fosse veleno né tanto meno pezzetti di lampadina. L’uomo è stato semplicemente accoltellato dall’amante e le lettere sono state scritte dalla donna per far capire al suo amante che effettivamente avesse intenzione di eliminare il marito per vivere con lui, senza però compiere di fatto alcun gesto. Quando verrà poi impiccata, tra l’altro, il boia si suiciderà poco tempo dopo poiché tormentato dal rimorso di aver impiccato una donna innocente.

Vito Santoro: Questa è stata l’ultima impiccagione avvenuta in Inghilterra, giusto?

Cinzia Tani: No. Dell’ultima impiccagione sto proprio scrivendo recentemente. Ad ottobre vorrei far uscire questo breve libro, un’autobiografia del più grande boia del mondo, l’ultimo boia. Lui è Albert Pierrepoint, figlio di una famiglia di boia, un lavoro che in realtà veniva tenuto segreto. Albert Pierrepoint è stato il più grande boia del mondo perché ha giustiziato circa seicento persone, tra cui duecento aguzzini nazisti perché era talmente bravo che venne chiamato in Germania a impiccare le belve di Bergen Belsen e fu richiamato poi altre volte ed era diventato famoso in tutto il mondo per le sue esecuzioni. Il motivo vero per cui io ho, però, scritto questa autobiografia (ed è quindi lui che racconta la sua vita) è per spiegare al meglio cosa si cela dietro questo mestiere. Quando, ad esempio, Pierrepoint si ritrova a giustiziare la modella assassina Ruth Ellis, la folla è inferocita perché non vuole più la pena di morte e, se fino a quel momento avevano esaltato, ora cercano di linciarlo. Quindi lui torna a casa, ci riflette e capisce qualcosa di importante: si dimette e scrive una lettera davvero commovente in cui ammette di aver sbagliato, che credeva di avere una missione ma che in realtà non si potesse definire tale e che la pena di morte non fosse un deterrente per il crimine. Da quel momento, Pierrepoint mette su un pub e comincia a combattere contro la pena di morte. Ho voluto raccontare questa storia proprio per spiegare l’orrore che è stata la pena di morte e dentro ci sono anche Camus, Dickens autori che hanno scritto contro l’orrore della pena di morte, ho voluto raccontare questa storia proprio perché lui stesso ha capito che bisognava combattere la pena di morte.

Vito Santoro: Ci potrebbe essere una versione maschile di Angeli e carnefici?

Cinzia Tani: No. Non ci potrebbe essere una versione attuale né di maschi né di femmine ma del passato sicuramente si, anche se sarebbe enorme perché gli uomini famosi che hanno fatto delle cose importanti sono tantissimi così come sono tantissimi gli assassini, ci vorrebbe realmente un enciclopedia. Poi, soprattutto gli uomini hanno avuto meno difficoltà: credo infatti che le loro storie siano meno affascinanti. Io in Darei la vita, libro in cui ho raccontato la vita delle compagne dei geni, mi sono resa conto di come fosse molto più interessante la vita delle donne che quella dei geni. Se tu prendi solamente Einstein e Mileva Maric (che nessuno conosce) donna dalla vita pazzesca, Mileva era molto più intelligente di Einstein, una grande chimica, una grande matematica che rinuncia a fare la sua carriera per aiutare lui. Io credo che la gran parte delle scoperte di Einstein siano dovute a Mileva, donna che poi rimane sola, abbandonata dal marito, senza un soldo, nonostante lui avesse preso un Nobel, malata e muore abbandonata da tutti. Quindi sono vite più affascinanti, perché sono donne che sono state ostacolate e che hanno molto amato e che sono morte tristemente. Quindi sono quasi delle favole, dei film drammatici mentre le vite degli uomini sono anche un po’ più banali. La vita degli uomini è una vita piena di successi, amanti ma poche difficoltà mentre quella delle loro donne, compagne è stata molto più complicata.

Inoltre, ti rispondo anche sul perché oggi non si potrebbe fare. Oggi non li vedo questi Angeli e non vedo neanche le assassine. Le donne assassine oggi sono molto diminuite, pensate solamente che nell’ambito dell’omicidio in famiglia 98% sono uomini che uccidono le proprie compagne, le donne non uccidono il compagno anche se sono state tradite o lasciate, loro se ne fanno una ragione. C’è il divorzio, possono lavorare quindi loro tranquillamente voltano pagina, la donna si rifà una vita l’uomo al contrario dice “senza di te non vivo”. Di assassine ne avrei pochissime e di angeli non ne vedo, l’ultimo angelo che ho conosciuto è stata Margherita Hack. Poi ci saranno sicuramente delle bellissime scienziate però questi personaggi che emergono, prima abbiamo parlato di Maria Montessori, questi personaggi che emergono nella storia del nostro paese io sinceramente non le vedo, forse proprio perché oggi ci sono meno difficoltà per realizzarsi e abbiamo brave cantanti, brave fotografe, brave artiste, stiliste, scienziate ma non abbiamo una che sia Greta Garbo, Isadora Duncan.

Vito Santoro: Ultima domanda che esula dal libro però affonda nell’attualità e ne voglio approfittare: mai come in questi giorni si è parlato di questioni di genere e poi c’è stato anche il problema del video di Beppe Grillo che ha portato il discorso agli anni ‘70 o addirittura prima. Vorrei sapere la tua opinione.

Cinzia Tani: Sul genere sfondi una porta aperta nel senso che per me non esiste genere. Tu vedi ad esempio queste donne, nessuno sa che Rosalind Franklin la moglie di Roosevelt era bisessuale, Greta Garbo e Isadora Duncan erano bisessuali, anche allora nessuno le ha mai giudicate per questo. Loro avevano delle amanti donne e degli amanti uomini. Per quanto riguarda Grillo io non volevo neanche vederlo perchè avevo paura a vedere quel video, quando l’ho visto mi sono venuti i brividi nel senso che abbiamo tanto combattuto per la violenza sessuale affinchè la vittima di violenza potesse avere il tempo per capire quello che le era successo e potesse non denunciare subito perchè scioccata, a volte neanche capisce cose le sia realmente successo. A quel punto non importa che la ragazza abbia fatto surf, ci sono ragazze vittime di violenza che poi sono andate a scuola. Anch’io nel mio passato sono stata molestate, il giorno dopo però cercavo di nascondere la cosa perché avevo un senso di vergogna. Quello che lui (Grillo) dice è terrificante, intanto lascia che tuo figlio si prenda le sue responsabilità e che sia lui a prendersi le sue responsabilità, se c’è un video, se ci sarà un processo che sia lui a prendersi le sue responsabilità. Tu padre (Grillo) devi essere il primo ad insegnare a tuo figlio il rispetto per le donne, perché a parte lo stupro tutto quello che succedeva in quella villa non mi sembrava il massimo del divertimento normale tra giovani, fare un video del genere, urlando contro la giustizia rende il tutto sconvolgente.

Vito Santoro: Grazie Cinzia, grazie per essere stata con noi. In libreria trovate Angeli e carnefici, leggetelo ne vale la pena e ancora grazie per essere venuta qui.

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Gli incontri di Lettera Zero: Carmen Barbieri – “Cercando il mio nome”

(trascrizione della videointervista del 27 marzo 2021)

Vito Santoro: Scrivere del proprio padre è un po’ come raccontare sé stessi, guardarsi dentro, specie quando la vita del genitore è giunta al capolinea e con lui è esistito un rapporto molto forte, quasi simbiotico, paragonabile ai «pupi mossi dalla stessa coppia di aste di metallo».Nel suo convincente romanzo d’esordio, Cercando il mio nome (Feltrinelli, pp. 224, € 16.50), la scrittrice e attrice Carmen Barbieri dà appunto voce al gorgo emotivo in cui precipita la giovane Anna, napoletana, studentessa fuori sede alla Sapienza, in seguito alla morte, sia pure annunciata e prevista, del padre amatissimo, Giosuè. Quel Giosuè, che era solito rivolgersi affettuosamente alla figlia con un apapà, parola di origine latina, entrata nel vocabolario napoletano, a indicare «una dolcezza, una positiva disponibilità d’animo del padre nei confronti del figlio». È «crasi di un moto a luogo»: a come ‘ad’, perciò “vieni da/verso papà”». Però a causa di uno spietato melanoma quell’apapà si è trasformato in «a-papà, senza padre»: alfa privativo.

Il lutto ha destrutturato la vita della ragazza, spingendola verso un travagliato percorso alla ricerca dell’essenza più intima e misteriosa della propria individualità. Anna elegge il padre a tu dialogico, quasi a renderlo concreto e riavvolge il nastro della sua esistenza. Per mantenersi agli studi a Roma, dove Giosuè l’aveva convinta a trasferirsi per allontanarla dalla sua malattia, Anna lavora come ballerina dilap dancein un night, dietro la spinta di un laido e innominabile sacerdote, un anti-padre, da lei ribattezzato il Prete Nero. Nel locale si trasforma in Bube, nome d’arte cassoliano, anche se lei, in verità, avrebbe preferito farsi chiamare Carla, come la ‘ragazza’ del poemetto di Elio Pagliarani, di cui viene citato il celebre ultimo verso: «Pietà di noi e orgoglio con dolore». Anna-Bube non si vende ai clienti, rifugge dai privé. Si fa solo «scimmia e uccello» intorno al palo della lap dance. Lascia solo rendere il suo corpo oggetto di sguardo. Forse solo qui, in questo luogo purgatoriale, Anna può distruggere definitivamente il proprio legame con il padre. «E l’incubo mi diceva: crescerai», recita il verso di Roberto Bolaño, tratto dalla silloge I cani romantici, posto in esergo.

Mentre volteggia intorno al palo, Anna rivede come in un film, sé stessa bambina ai Quartieri Spagnoli, dove è nata e cresciuta in un palazzo del Cinquecento, una icona sacra in ogni piano. Un passato che la vede gironzolare nei viottoli con i compagni di classe, i gemelli Alfredo e Cristina o con papà Giosuè. La passione per il teatro maturata dalle suore. E poi la varia umanità dei vicoli e dei bassi e soprattutto la nonna dai «ragionamenti cristianamente sovversivi», che la educa al culto dei morti. Fin dalla prima veglia funebre la bambina si abitua alla realtà della finitezza e riconosce nei corpi processi vitalistici: «i morti scorreggiano; oppure emettono dei rumori intestinali; il più delle volte rilassano troppo la mandibola».

Anna ha fede. Una fede autentica, ben diversa da quella finta e strumentalmente esibita del Prete Nero e del suo fidanzato, giovane arrivista professore universitario, legato agli ambienti ecclesiastici romani. Non a caso, fa ricorso a similitudini bibliche nel raccontare la malattia del padre, la cui fede, confessa, «mi interroga più di ogni altro aspetto della tua vita». Anna crede in Cristo, cioè nel Dio fatto uomo. Si immedesima nella «grande ostia consacrata, una persona viva, che mi guardava, offrendomi la sua presenza per fare memoria della mia». «Se sia stato solo un uomo o se sia Dio, non cambia la sostanza della sua presenza alla mia coscienza. È esistito perché esistono le sue parole, che ha detta di molti sono sue, soltanto sue». È la lezione di Dio che pervade l’intero romanzo: «un Dio che dice, che chiami le cose per nome e queste esistano, che l’esistenza passi attraverso le parole». Le parole sono dunque vive. Da qui nasce il bisogno da parte di Anna di recitare (per lei l’attore non è altro che colui che «sa ascoltare ciò che la terra bianca, la polvere bianca dell’anima, seguita a dire»), nonché l’attrazione verso il loro etimo: «amore viene daa-mors, senza morte. Del perché voglio bene a Gesù sta forse tutto in questa parola. Lui è quella parola che crocifissa non muore. Perché amore non conosce morte».

Carmen Barbieri: Oltre che raccontare l’elaborazione di un lutto, Cercando il mio nome ha come tema principale l’amore, in particolare, sopravvivere alla fine del grandissimo amore vissuto con il padre. Penso che qualcuno tra i lettori potrebbe aver provato questo tipo di smarrimento esistenziale non necessariamente dopo la perdita della figura paterna o materna ma anche, magari, alla fine di una storia d’amore costitutiva dell’esistenza di una persona. Quando perdiamo qualcuno che costituisce la nostra esperienza d’amore, questa cosa ci procura uno smarrimento molto forte. Da qui la necessità di rispondere alla domanda: “Chi siamo senza la presenza dell’unica persona che dava senso alla nostra vita?”.

Il grande problema dell’amore è il vincolo che si crea tra persone che si amano e quando quel legame subisce un mutamento, ciò provoca molto dolore. Nel caso di Anna e del padre si tratta di un mutamento abbastanza definitivo con il quale bisogna fare i conti in modo importante. Inoltre credo sia vero che questo romanzo non racconti e non presenti tanti “maschili luminosi”, fatta eccezione per una “paternità luminosa”. Mi vengono in mente tanti libri nei quali è presente una “maternità luminosa” ma raramente ho letto libri sulla paternità e quindi mi fa molto piacere che questo libro, se tratta il maschile, lo fa attraverso un padre e la sua amorevolezza.

         Un’altra questione interessante è quella della lingua e dei riferimenti culturali. Anna è una ragazza di diciannove anni che si è da poco trasferita a Roma, da studentessa fuorisede, e per affrontare questo dolore ha solo strumenti culturali. Si tratta di una ragazza educata dal padre ad amare i libri, a vivere in mezzo ai libri. Fin da bambina condivideva con il padre una serie di letture e lo faceva semplicemente per assecondare la sua voglia di stare sulle stesse pagine del padre, allo scopo di condividere con lui il più possibile.

         Nel romanzo Anna ammette di aver letto in tenerissima età libri di cui non aveva capito niente. La cosa importante era passare sulle stesse pagine, leggere le stesse parole che stava leggendo il padre in quel momento. Èdifficile smarcarsi da tutto questo, proprio perché è una relazione che coinvolge tutto e che per certi versi potrebbe ricordare un rapporto uterino, più legato ad una maternità. In questo libro invece è presente una ferita che accomuna madre, figlia e nonna,una donna quest’ultima con la quale Anna impara ad aver rispetto dei morti, a non aver paura della morte e a non considerarla la fine.

Vito Santoro: Un’altra figura molto importante è il Prete Nero, un vero e proprio anti-padre. Solitamente i preti di questo tipo hanno una connotazione omosessuale. Questo prete no.

Carmen Barbieri: Mi piacerebbe partire dal fatto che il Prete Nero non ha un nome, cosa sulla quale ho riflettuto lungamente. Il nome in questo libro è tutto, infatti il problema di Anna è quello: attraverso il nome cercare di capire chi è. Questo perché il nome anche da un punto di vista biblico dice la missione di quella persona nella sua vita, il senso della propria esistenza e dunque è una cosa importantissima.  Privare del nome una figura come Prete Nero è un’operazione che anch’io, come scrittrice, ho voluto per togliere qualcosa di sostanziale al personaggio più negativo di tutta la faccenda, quello che poi è l’artefice principale di tutta una serie di tormenti che Anna si troverà ad affrontare. Prete Nero è senza nome anche perché non volevo che questo personaggio fosse chiuso all’interno di un nome specifico e volevo al contrario che rappresentasse una categoria che in realtà esiste e della quale non si parla tanto. Credo non se ne parli tanto dal momento che molto spesso ci ritroviamo di fronte a qualche pruriginoso articolo di cronaca locale che invita a puntare il dito contro le relazioni omosessuali. Noi continuiamo a stare su argomenti di genere che patologizzano delle categorie ma, al di là di quello, il problema è che ci sono molte situazioni nell’ordinarietà nella quale ci sono persone consacrate che attivano dei rapporti abusanti con delle donne. Semplicemente non se ne parla perché l’impressione che ho io è che ancora adesso tutto quel che riguarda l’abuso nei confronti del femminile tende a non essere al centro dell’attenzione come dovrebbe, soprattutto in determinati contesti. E in una realtà come quella italiana e meridionale, come nel mio caso, è vulgata popolare che il diocesano della parrocchia possa avere una relazione con la cosiddetta perpetua, come se non facesse scalpore. Possiamo inoltre citare anche più recentemente tutta una serie di donne consacrate, suore abusate da uomini consacrati. C’è un mondo che realmente facciamo finta di non vedere. Cosa che a me personalmente dà molto fastidio, da persona credente e da donna.

Vito Santoro: Cercando il mio nome è un romanzo dal fortissimo afflato religioso, sviluppato fin dall’inizio. Nelle pagine dedicate ad Anna giovane vi è una serie di icone sacre. Siamo di fronte ad un sacro che si respira, un sacro dalla dimensione fortemente visionaria che si traduce in sogno o anche il contrario: sogni che si traducono in visioni.

Carmen Barbieri: La dimensione religiosa è proprio la chiave del romanzo. L’elaborazione del lutto porta la protagonista a mettersi in discussione, ad attraversare più profondamente la sua relazione con il divino e a capire quanto e se fa parte del divino ella stessa, così come le è sembrato di intuire attraverso la religiosità popolare nella quale è cresciuta e tramite le esperienze che ha maturato nel corso dell’infanzia. Rileggendomi una volta terminato il libro, ho potuto constatare con stupore che l’intera storia si sviluppa seguendo un percorso inverso all’interno della cristianità, cominciando dall’infanzia di Anna, raccontando delle scuole cattoliche che ha frequentato, delle icone che, come detto, caratterizzano il palazzo nel quale è cresciuta e di questo crocifisso che la incuriosisce e che fin dall’infanzia la interpella. Per quest’ultimo fin dall’adolescenza, ha una forte affascinazione per cui ad un certo punto arriva ad innamorarsi di un ragazzino semplicemente per l’aspetto vagamente simile all’iconografia cristologica. Questa prima fase della vita di Anna è incentrata sul Nuovo Testamento e sulla relazione con Gesù. Anna infatti racconta di un commento scritto in occasione della Prima Comunione su di una parabola che le era particolarmente piaciuta. Tuttavia, il lavoro che deve fare per andare alla ricerca del suo nome è come se la portasse a fare un salto dal Nuovo all’Antico Testamento, perché ciò che Anna deve ritrovare è innanzitutto la sua relazione con Dio e poi con Dio che si fa uomo. In questo senso c’è un percorso inverso. La dimensione onirica è la dimensione attraverso la quale Dio, la Madonna e Gesù le parlano. Questi sogni possono esser visti dal lettore da un lato come una forma di elaborazione del lutto, considerandoli dal punto di vista psicologico come dei passaggi che l’inconscio utilizza per elaborare ciò che sta succedendo. Ma, distaccandosi da questo aspetto, possono esser visti come dei momenti nei quali Dio cerca di comunicarle qualcosa: lei non è orfana così come si sente, ma appartiene al divino, appartiene ad una dimensione di paternità che nessuno potrà mai toglierle, per quanto ella cerchi di oltraggiare e distruggere attraverso la relazione (dai riferimenti paterni) con Prete Nero, per esempio. In questo libro non ho voluto che Anna incontrasse un fidanzato positivo ma ho preferito un prete bianco, quindi non una relazione sentimentalmente vincolante, perché, se Anna fosse passata dal dolore per la morte del padre, all’innamoramento nei confronti di un ragazzo, avrebbe creato ancora una volta un legame affettivo di dipendenza.Riuscire invece ad elaborare la propria relazione con il Divino, ti mette in una condizione liberante, piuttosto che creare ulteriori legami dipendenti sul piano affettivo-relazionale. 

Vito Santoro: Mi ha molto colpito anche il legame tra la sfera religiosa e l’attività di attrice. La definizione di attore appunto è: ‘colui che sa ascoltare ciò che la terra bianca, la polvere bianca dell’anima seguita a dire’. Tra le altre cose nel romanzo si parla anche di una passione per la recitazione, maturata già a scuola dalle suore. Dal momento che il romanzo è parzialmente autobiografico, volevo chiederti se sia maturata fin da piccola in te la passione per il teatro. Inoltre, vorrei chiederti di parlare anche di questo legame tra la recitazione e la sfera religiosa, dove la parola teatrale diventa anche una parola religiosa, se facciamo riferimento alla storia del teatro a partire dall’antica Grecia in poi.

Carmen Barbieri: Sì esatto, anche per me è stato così. La prima volta che salii su un palcoscenico avevo tre anni e mezzo e ricordo di esserne rimasta affascinata, ricordo di aver fissato a lungo il nevischio che si creava attorno ai fari accesi. Tra l’altro frequentavo proprio la scuola ‘Giovanna D’Arco’ menzionata nel libro, in cui c’era un meraviglioso teatro all’italiana fornito di buca dell’orchestra e tutto. La suora prima di portarci a teatro ci impose silenzio così come faceva prima di portarci in cappella per andare a messa. Questa cosa mi pose subito in una condizione di sacralità. Dunque, per me il teatro è uno spazio sacro dove l’uomo, a prescindere da qualsiasi orientamento religioso, sperimenta la relazione col divino. Nella relazione tra l’uomo e la divinità e nella possibilità di comprendere l’esistenza c’è qualcosa che accade quando in scena si torna a dire una parola, sempre perché la parola può contenere il mistero dell’essere al mondo. Allora lì, nell’atto teatrale puro e crudo, possono succedere delle cose che hanno a che fare con la possibilità di comprendere di più sull’esistenza umana attraverso la rievocazione di qualcuno che certamente, nella maggior parte dei casi, viene fuori dalla fantasia di un altro uomo; ma, nella dimensione scenica acquista una verità tale che hai la sensazione di riportare dei morti in vita, perché quello che fa l’arte è dare vita a delle esserità che sopravvivono al passare del tempo. Se portassi in scena l’Amleto, per esempio, non starei pensando di portare in scena un personaggio immaginario, bensì alla capacità dell’uomo di creare qualcosa, così come Dio, ma su un piano meno divino, mettendolo in condizione di dare vita a dei personaggi che possono “ripresentificarsi”. Questa dimensione “misto-magica è chiaramente influenzata dalla mia cultura d’origine che è quella napoletana, dove il cattolicesimo nella sua dimensione popolare non ha mai abbandonato le proprie origini greche, oltre anche al modo di percepire il rapporto tra i vivi e i morti e l’esistenza più in generale. Per questo quando un napoletano cattolico crede che la morte non esiste, non solo ci crede per via di Gesù che ha sconfitto la morte, ma ci crede anche perché Cristo mette una firma sotto una percezione della relazione tra vivi e morti che è più antica di Cristo stesso. In questa relazione in cui i morti non possono definirsi tali ma, anzi, continuano a parlare con i vivi – cosa che magari alcune persone sperimentano nella loro quotidianità – a teatro diventa uno spazio sacro nel quale io, legittimamente, apro il sipario e dico “adesso facciamo tornare in vita qualcuno”.

Il gioco del teatro è quello che permette ad Anna sin dall’infanzia di convivere con questa educazione alla morte alla quale è esposta fin da bambina, prendendo parte a numerose veglie funebri e alle esumazioni dei corpi. È proprio questo meccanismo che fa innamorare Anna, la paura di quello che vede. Per resistere a queste esperienze, Anna tende a crearsi delle situazioni cuscinetto in modo da accogliere ed accettare il trauma. È proprio questo meccanismo che fa innamorare Anna, “la paura di quello che vede”.

Vito Santoro: In questo romanzo c’è anche un vero e proprio plurilinguismo, anzi, un vero e proprio tour de force lessicale molto raro nel panorama narrativo attuale, dove lo scrittore tende più che altro a raccontare delle storie. Tu però, oltre a raccontare storie, lavori molto sulla forma. Tra le altre cose, in questo romanzo c’è un tu dialogico che è il padre, alternato talvolta anche al monologo. Altre volte, invece, abbiamo il racconto breve incentrato sui singoli personaggi dei quartieri spagnoli. Mi piacerebbe entrare nella tua officina letterale di scrittrice, caratterizzata da una vera e propria ricchezza lessicale stilistica. Come hai proceduto?

Carmen Barbieri: Innanzitutto questo libro ha avuto una lunga gestazione, nel senso che ho cominciato a scrivere qualcosa quindici anni fa, due anni e mezzo dopo che mio padre era morto di melanoma. Inizialmente quindi era una sorta di “diario del dolore” scritto in prima persona. Ho sempre desiderato scrivere nella mia vita ma, per via di una serie di eventi avversi, questa cosa si è realizzata soltanto adesso, nel 2021. Questa storia era, però, quella dalla quale sentivo necessariamente di dover partire per portare a compimento la scrittura di un romanzo.

Il lavoro sulla lingua per me è un aspetto centrale. Uno scrittore è la lingua, poiché ciò che definisce uno scrittore è il linguaggio che utilizza, l’aspetto che lo distingue da un altro. In tutti questi anni ho fatto un lavoro su me stessa per capire che cosa volessi tenere dentro rispetto anche alla mia napoletanità e cosa invece volevo tagliare fuori e a cosa non volevo assomigliare. Quindi, da una parte la presenza del napoletano non solo per l’utilizzo di alcune parole in dialetto, ma anche come struttura ritmica che c’è sotto il fraseggio. È un qualcosa che mi viene spontaneo semplicemente per il fatto che ho vissuto nei quartieri spagnoli, ho vissuto in un contesto sociale dialettale e di conseguenza anche il mio pensiero si muove su quel ritmo. D’altra parte c’è la lingua italiana che ho scoperto andando a scuola, della quale mi sono innamorata grazie alla letteratura e ai numerosi scrittori e che è poi divenuta la lingua alla quale desideravo appartenere. Quello che più mi interessa fare quando scrivo è quindi creare un matrimonio tra il napoletano e l’italiano, perché è lì che esisto io come scrittrice, piuttosto che assomigliare ad altre scritture o filoni narrativi, anche perché ci ho messo tanto per esordire proprio perché volevo uscire con una voce che fosse la mia voce e non rischiare di assomigliare a qualcos’altro. Per fare questo ci è voluto inevitabilmente del tempo, perché inizialmente ci si muove cercando di imitare i modelli Anna Maria Ortese stessa, non perché si ambisca a diventarlo ma semplicemente per un movimento di ammirazione. Smarcarsi, quindi, dai propri modelli così come staccarsi dalla figura paterna quando la perdiamo, per acquistare la propria autonomia esistenziale, identitaria ed artistica, è stato un intervento che mi ha richiesto tutto questo tempo. In tutti questi anni ho fatto tantissimi tagli perché inizialmente scrivevo in prima persona, poi ho cominciato a scrivere le storie delle ragazze del night, successivamente ho cominciato a scrivere dei pezzi in terza persona, come se ogni volta volessi sperimentare da che parte andare. Fino a che ad un certo punto mi sono visualizzata al posto di Anna e ho immaginato che lei parlasse col padre, in una situazione molto teatralizzante, e che ci fosse una quarta parete aperta che, nel gergo teatrale, significa che l’attore si rivolge e coinvolge il pubblico. La quarta parete è aperta nei momenti in cui Anna ripercorre alcuni passaggi della sua vita rivolgendosi al padre che, in realtà, non è l’unico a cui si sta rivolgendo. Queste ricognizioni esistenziali, infatti, le sta facendo al lettore. Da qui emerge quindi il desiderio di Anna – in comune poi con chi scrive – di essere vista per mostrare di non sentirsi più privata della presenza del padre. Nei passaggi in terza persona si consumano per me i passaggi più difficili dell’accettazione, della malattia del padre e della sopravvivenza alla morte del padre. Scrivere quei passaggi in terza persona, come se fosse un racconto che prescinde da lei e dal padre, era l’unica maniera per poterlo raccontare.

Vito Santoro: Leggendo il tuo romanzo e conoscendo il tuo percorso artistico, mi è venuta in mente un’eventuale riduzione teatrale, visto anche il ritmo delle parole e l’idea fortemente performativa che è alla base del testo. Ci hai già pensato a renderlo un monologo?

Carmen Barbieri: Sì, ci sto pensando ma non vorrei metterci quindici anni come per il romanzo. Ci penso con una certa prudenza, utilizzando lo stesso meccanismo che ho usato per il romanzo: scartare le prime idee che mi vengono. Tutte le prime ipotesi, impostazioni e bozze di drammaturgia le sto scrivendo per buttarle via, sia perché vorrei che lo spettacolo avesse una sua autonomia ed una dignità completamente diverse rispetto al romanzo, sia perché lo trovo molto più interessante come lavoro di ricerca teatrale.Credo che sarebbe più interessante per gli spettatori che hanno già letto il romanzo mostrare qualcosa di inedito ed imprevedibile. Io stessa da spettatrice, per esempio, non amo quando al cinema o a teatro vedo qualcosa che tenta di imitare ciò che è contenuto nel libro. Per questo motivo bisogna trovare un’altra chiave per raccontare, una chiave che ancora non ho definito bene, ma che sicuramente posso dire vorrei avesse un’identità propria, pur partendo del romanzo.    

Vito Santoro: Nel romanzo ci sono anche due citazioni in esergo: una tratta dall’Apocalisse– che unisce visione e scrittura – ed una che è un riferimento ad una silloge poetica meravigliosa di Bolaño, “nell’incubo, crescerai”, anche se nell’ottica dello scrittore cileno, quest’incubo, questo inferno, ha naturalmente più una dimensione politica che esistenziale. In queste due epigrafi è dunque racchiuso un po’ tutto, perché Anna, alla fine, è un corpo che ha bisogno di essere visto, anche se poi ha una forma di disprezzo nei confronti degli avventori del night, sotto certi aspetti.

Carmen Barberi: Sì, questo doppio esergo presenta una doppia natura nel senso che il primo esergo, quello dell’Apocalisse, è nato come un esergo pensato per me poiché vissuto da me quando ad un certo punto, in un momento di preghiera, mi sono trovata di fronte a questo versetto e ho sentito proprio che fosse la risposta alla mia domanda di senso esistenziale. Sai, scegliere di aderire a questa vocazione artistica non è semplice perché comporta tutta una serie di precarietà e di fragilità. Dunque, quando ho letto questo versetto l’ho percepito proprio come una chiamata, come un “quello che vedi scrivilo, non dubitare di questa cosa, fallo, scrivi questo libro fino in fondo”. Metterlo in esergo è stato per me importante per ricordare il momento in cui ho definitivamente deciso di scrivere questo libro e di portarlo a compimento. Per quanto riguarda Bolaño, invece, al di là del fatto che si tratta di uno dei miei autori preferiti, è uno di quelli che mi ha dato più coraggio per scrivere. Ciò può sembrare paradossale, in quanto da una parte quando ci si ritrova a leggere questi giganti della letteratura, la prima reazione che si ha è quella di pensare di non poter mai fare altrettanto, di non poterci neanche provare, però dall’altra la libertà espressiva che l’autore ha avuto la capacità di sperimentare ti dona il coraggio di fare la stessa cosa. In quanto per me è impressionante come lui ed altri scrittori riescano a dire le cose in una maniera molto vicina a come magari le percepisco io in certi momenti della mia vita, questo mi fa credere quantomeno di poter provare a raccontare come sento e come vedo determinate cose e, di conseguenza, a scriverle. Nel caso di Anna e nel caso mio, io Carmen quando incontro quella poesia di Bolaño mi rivedo dalla prima all’ultima riga, anche se nel caso dello scrittore si trattava di una sorta di manifesto politico-poetico.Nel mio caso, quando avevo vent’anni ero folle e reagivo esattamente come raccontano i versi di quella silloge perché mentre ero nell’incubo e sentivo che quest’ultimo mi diceva “crescerai, attraverserai il labirinto e dimenticherai” e, prima di dimenticare, avevo la necessità di lasciare qualcosa di iscritto.

Vito Santoro: E la ragione dei riferimenti a La ragazza di Bube di Cassola, invece?

Carmen Barbieri: Bube perché è uno dei libri che ho letto da ragazzina durante un’estate rovente a Procida, e non era di certo uno dei romanzi consigliati per l’estate – poi dopo ho capito perché– però in realtà mi ispirava tantissimo anche solo per il titolo che mi aveva molto incuriosito ed è secondo me bellissimo perché, ad esempio, quando Cassola racconta di quel romanzo, in un’intervista dichiara che la letteratura è il luogo in cui comprendere maggiormente qualcosa sulla verità dell’esistenza, sulla verità umana. Questa cosa mi folgorò dopo aver letto il libro perché effettivamente la letteratura, come giustamente aveva detto lui in occasione dell’uscita di quel romanzo, offre questa possibilità. Del romanzo di Cassola mi è piaciuta la malizia innocente dei due protagonisti (Bube e la ragazza) perché è il bisogno di rinascita dopo lo scatafascio della guerra, è l’istinto animale, anche sessuale, che fa avvicinare questi due ragazzi, il voler sopravvivere comunque alla miseria e alla povertà trovando delle strategie legate alla dimensione affettiva e questo elemento emerge con impatto fin dall’inizio perché, appunto, i ragazzi si incontrano subito e si crea subito questo feeling ed esigenza di tornare a nascere facendo forza inizialmente sul bisogno sessuale e rispondendo fin da subito ad un richiamo fisico superficialmente malizioso ma che cela dell’innocenza, la stessa innocenza che mi andava di restituire un po’ ad Anna nel momento in cui diventa Bube.

Vito Santoro: L’Anna personaggio preferiva, invece, La ragazza Carla di Pagliarani…

Carmen Barbieri: Sì, sono tutti femminili di cui mi sono innamorata crescendo e nei quali ho ammirato la capacità femminile di resistere nel silenzio, all’interno di esistenze non roboanti. La storia della Ragazza Carla è devastante da diversi punti di vista, eppure lei non si lamenta mai, ha una resistenza veramente eroica e quel verso finale, “pietà di noi, orgoglio con dolore”, chiaramente è meraviglioso e mi piace perché presenta un doppio movimento.Se “pietà di noi” è quasi una preghiera rivolta agli altri ed è, in quel momento, una preghiera che Anna rivolge a Gabriela che è la donna del night che la addestrerà a ballare nel locale ma che, in realtà, sta rivolgendo anche al padre, al lettore e a chiunque la incontri, “pietà di noi”nel senso di tutta quest’umanità che sto soffrendo, con “orgoglio con dolore” si rivolge invece a se stessa, indicando lo stare nel dolore ma con orgoglio, che è poi quello che molte volte ci fa commettere degli sbagli, come nel caso di Anna. Ho utilizzato queste parole perché mi piaceva questo andare dagli altri per poi tornare a se stessi, fulcro dell’intero romanzo.

Vito Santoro: La canonica ultima domanda: in questo periodo cosa stai facendo, dato che non puoi calcare il palcoscenico? Quali sono i tuoi progetti futuri anche da “scrivente”, come ti definisci sul tuo profilo Instagram?

Carmen Barbieri: Sto soprattutto scrivendo, in effetti. Sto cercando di lavorare al mio secondo romanzo perché ho delle idee abbastanza insistenti e quando arrivano delle cose che stanno lì tutti i giorni a girarti in testa, evidentemente vogliono trovare uno spazio diverso dal chiuso della testa e del cuore. Oltre a questo, sto scrivendo anche altre cose. Per quanto riguarda il teatro, avrei avuto delle date a maggio ma devo mettermi in contatto con gli organizzatori perché non so davvero se si riuscirà o meno. Purtroppo è tutto molto fragilizzato da questa situazione pandemica e quindi in quell’ambito le cose si muovono molto più a rilento, mentre la scrittura fortunatamente no, prosegue. Ho impiegato molto tempo a scrivere questo romanzo perché coinvolgeva anche autobiograficamente il mio stesso congedo dalla figura di mio padre. Quando ho iniziato a scrivere il libro, i personaggi si chiamavano come me e mio padre, Carmine e Carmen e anche in quel senso, dal punto di vista dell’identità, capire chi è Carmen senza Carmine è stato molto faticoso perché condividevamo tutto, perfino il nome. Quando, però, ho cominciato a valutare la possibilità di inserire, invece, elementi di pura invenzione e abbandonarmi al desiderio di essere una scrittrice e ad inventare cose, la prima operazione da fare era quella di cambiare il nome dei protagonisti e, visto che non riuscivo ad individuare quale potesse essere il nome da dare a me, aprii un file scrivendo “cercando il mio nome”.Il che era un modo per dire “nel frattempo che cerco di capire il nome che mi devo dare, comincio a scrivere altre cose”. E quando poi ho mandato questo file con questo titolo (che non voleva essere un titolo) ai primi editori, da subito è piaciuto, nonostante non fosse assolutamente un titolo a cui avevo pensato in maniera cosciente e strutturata in termini di marketing. Questo per dire che è stato molto difficile per me scrivere questo libro da un punto di vista personale ed emotivo, ma ho sempre voluto scrivere e la cosa per cui dico grazie ad Anna è che adesso mi sento molto più libera di raccontare. Quindi, spero che il prossimo libro non esca tra quindici anni ma molto, molto prima.

In Tu con Zero - Le interviste

Il mattone e New York: su La Fabbrica del Santo

Valentina di Corcia intervista Leonardo Gliatta

Valentino e Tore, figli della generazione di mezzo, quella a metà strada tra l’analogico e il digitale, disinteressati al dibattito politico e lontani dal clima barricadero dei cortei e della contestazione giovanile, vivono in attesa di andare via da un paese del sud Italia diventato famoso per il santo del nuovo millennio.  Un romanzo che ci riporta indietro nel tempo, agli anni Novanta, gli anni dell’ultimo segmento di benessere collettivo e dei cambiamenti sociali di cui solo oggi ci rendiamo conto, in una provincia pugliese che fonda la sua ricchezza nel grano e nel “mattone”, una realtà nella quale i due protagonisti si muovono a ritmi diversi: Valentino, con la sicurezza e la spavalderia del suo rango altoborghese, e Tore, con la cautela e il buonsenso di chi sa di doversi guadagnare ogni particella di felicità. Tra di loro Marida, sensuale e ipnotica creatura: amica, sorella e amante. Per tutta l’adolescenza le loro strade si intrecciano, si fondono fino a diventare una linea unica, che si inerpica tra le viuzze ripide di San Giovanni Rotondo ma che con  l’età adulta si biforca: da un lato, oltreoceano, nel reticolo fitto e regolare di Manhattan, dall’altro poco più a valle del paese, lì dove sorgerà la fabbrica del santo. L’obiettivo comune è continuare a salire: salire alla ricerca della perfezione ma anche sfuggire al destino mortale e raggiungere il sole.
Questo racconto di provincia, le cui pagine trasudano l’atavico desiderio di riscatto e rivalsa tipico di chi è nato al Sud, è  La Fabbrica del Santo, romanzo d’esordio di Leonardo Gliatta. Abbiamo intervistato l’autore per ripercorrere con lui i passaggi  salienti della storia.

La costruzione di un’amicizia e, parallelamente, la costruzione di una basilica.
Costruire un rapporto è come edificare una basilica, un santuario?

I due ragazzi del romanzo, Salvatore e Valentino, si conoscono, crescono e vivono mentre alle loro spalle si erige la nuova basilica di Padre Pio. Così come la fabbrica del santo è un cantiere vivo, fatto di ripensamenti, stop improvvisi, ritardi, intoppi, e di altrettanto inaspettate accelerazioni, anche il rapporto tra i due è un organismo vivente che palpita, brucia in vampate e scoppietta sottotraccia. Entrambe le costruzioni sono mosse da un forte desiderio, segnate da un destino che ha dell’irreparabile. Si deve portare a compimento la nuova casa del santo, costi quel che costi, e si deve tenere uniti, in una relazione simbiotica, i due amici affinchè la missione che hanno su questa terra si realizzi. In fondo, che cos’è l’amicizia se non un atto di fede?

Tore e Valentino: necessari l’uno all’altro eppure inevitabilmente rivali, stritolati in un rapporto eternamente in bilico tra il desiderio di sopraffazione e la ricerca di una metà complementare. Un sentimento profondo, a tratti ambiguo che ad un certo punto viene messo in crisi dall’arrivo di una donna: Marida. Qual è il reale ruolo di questa figura femminile?
Marida è il vertice della piramide, è l’anello di congiunzione tra Salvatore e Valentino. È sul suo corpo che i ragazzi si fanno la guerra, è il loro terreno di battaglia. La ragazza però, come tutti i personaggi è sì una vittima, ma è allo stesso tempo anche cosciente di quello che vuole: arriva a frapporsi tra i due perché sa di essere l’ago della bilancia, tenta di ottenere il suo tornaconto inseguendo il sogno di riscatto dalla provincia, ma si accorgerà presto di trovarsi in trappola.

In alcuni passaggi la scrittura diventa chiaramente cinematografica e rievoca, nella memoria del lettore, un certo cinema d’autore, in particolare quello di Bertolucci o Patroni Griffi… Quanto è importante il linguaggio visuale nella comunicazione contemporanea?
La mia formazione è cinematografica, ho studiato cinema e sceneggiatura. Quando penso una scena la racconto come se la vedessi al cinema. Oggi non esiste comunicazione che non sia prima di tutto visuale. Viviamo oggi più che mai in un regime scopico. Bombardati come siamo dall’informazione, da mille stimoli che il cervello fa fatica ad elaborare, per far passare un messaggio cerchiamo scorciatoie. Non si ha più tempo di assimilare un concetto, di descriverlo in pagine e pagine, tutto deve arrivare qui e ora allo spettatore/lettore. Instagram è il segno dei tempi, una immagine deve significare un intero discorso di senso. Stessa cosa accade nelle forme di comunicazione più tradizionali, come i romanzi. Sempre più brevi, sempre più sinottici, con frasi che sembrano uscite da una canzone rap, che cercano l’effetto, che squarcino mondi. E’ un nuovo linguaggio, più vicino alla poesia che alla prosa, che mi affascina e mi stimola. 

Passando tra le maglie del romanzo, sembra emergere una certa estetica della narrazione che richiama da vicino – per esempio – alcune scelte e alcune opzioni care a Nicola Lagioia, l’ultimo Lagioia, quello della Ferocia e della Città dei vivi, una certa tendenza al non-fiction novel che ammicca agli scandali dai salotti buoni di provincia. Forse anche una certa tendenza tutta nostra, tutta levantina di affrontare certe forme del narrato. Cosa c’è di tutto questo nel tuo romanzo? O, comunque, quanto pensi sia importante oggi una proposta narrativa così strutturata?
Ti ringrazio per la domanda, che mi permette di approfondire un aspetto importante della scrittura che sta dietro al mio romanzo. Il genere del non fiction novel ha padri illustri, come Truman Capote e Carrére, che partono dal sostrato di cronaca per piegarla ai propri bisogni estetici. Lagioia con gli ultimi due romanzi sposa questa formula narrativa, con un intento chiaro di rappresentare una società esausta, abbandonata ai suoi vizi, intrinsecamente corrotta dal capitale. Nel mio romanzo si respira l’aria levantina dei salotti buoni, in certi discorsi che l’avvocato Giurato fa a Salvatore si rintraccia il prototipo dell’istrionico, dell’affarista esperto, serpentino ma mai spietato, che è tipico del nostro territorio. I fatti di cronaca che riporto in vita, sono quelli legati alla vicenda umana e giudiziaria del faccendiere foggiano Raffaello Follieri, che giovanissimo tentò la scalata al potere negli ambienti ecclesiastici americani. Assurse agli onori delle cronache rosa per la sua love story con una allora sconosciuta Anne Hataway. Il percorso narrativo di Valentino si innesta così su quello reale di Follieri, e la fiction si rivitalizza grazie al reale, ne riceve struttura senza alterare i connotati drammatici.

Una prima prova sicuramente ben riuscita, la tua, un romanzo scritto bene e che,  prestandosi a diverse chiavi di lettura, affascina  e mantiene viva la curiosità del lettore  dalla prima all’ultima pagina. Cosa ha rappresentato per te La Fabbrica del Santo e cosa vorresti ancora raccontare ai tuoi lettori?
Il romanzo è un’opera prima, ho impiegato molti anni per dare la giusta forma a una storia che mi ronzava in mente. E’ una storia imperniata su un rapporto viscerale, totalizzante, tra due ragazzi, costruita su due personalità antitetiche ma complementari. Ho attinto ai miei ricordi, è un racconto intimo e personale, che ho dovuto guardare sotto la lente di un topos classico, quello della ascesa e della caduta, della hybris greca. Ne avevo bisogno per prenderne le distanze, per non farmi fagocitare dalla relazione conflittuale dei due. Il mondo dell’adolescenza è una attrazione molto forte per me, un terreno di indagine su cui sento di dovermi spingere. E’ un periodo della vita in cui l’identità è in divenire, in cui non siamo ancora condizionati dalle regole sociali. Ecco, questo mondo, quello dell’eterna possibilità, dove si può ancora essere quello che si vuole, è lo scenario in cui vorrei muovermi. Fertile, inesauribile, cristallizzato in un eterno presente.

Leonardo Gliatta è nato a Foggia, nel 1977. Ha studiato Scienze della Comunicazione all’Università di Siena, dove si è laureato in cinema, con una tesi su Wong Kar-wai.
Scrive racconti per diverse testate (Crackrivista, Racconticon, Blamrivista), e antologie (Giulio Perrone Editore), sceneggiature per serie tv (Mediaset)  e radiodrammi (Lifegate Radio). Nel 2020 ha pubblicato il suo primo romanzo, La Fabbrica del Santo, per Ianieri Edizioni.
Si occupa di media strategy e analytics per le reti del gruppo Discovery Italia (Real Time, Nove, Dmax).

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