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Valentina di Corcia

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Giovani non più cannibali o cannibali non più giovani? Una nuova estetica 30 anni dopo – Call for Papers

Quando Jack Frusciante uscì dal gruppo alcuni di noi si aggiravano tra i banchi del liceo, altri erano già stati assorbiti dal flusso palpitante che riempie le aule universitarie. Tutti proiettati verso un futuro che sembrava aspettare solo i figli del benessere e della tivù commerciale, quella generazione X giudicata viziata tanto dai boomers quanto dai millennials. La generazione di mezzo, quella su cui i padri avevano investito capitali, riversato aspettative e, spesso, anche un certo desiderio di riscatto. I ragazzi degli anni Novanta, incastrati nel mezzo, tra un prima irripetibile, inarrivabile, e un dopo che si prospettava eccezionale. I ragazzi degli anni Novanta, gli anni del post comunismo e dell’Europa unita e a portata di Interrail, gli anni dei Segreti di Twin Peaks e del Pool di Mani Pulite, della fine della Prima Repubblica e del caos annunciato dalla Seconda. Eppure, il fascino che quegli anni esercitano ancora oggi è fortissimo e non solo in Italia. Già nel 2018 Nicholas Mathieu, con E i figli dopo di loro, ripercorre una storia della provincia francese negli anni Novanta: è proprio la provincia in quegli anni a ricoprire un ruolo fondamentale; ed è proprio lì, nella maggior parte dei casi, che in Italia si annida il germe della “narrazione cannibale”. Appena un momento prima c’era stato il Gruppo 13 di Lucarelli, Teodorani e compagnia che aveva raccontato una Bologna underground: costruendo storie che si ispiravano alla tradizione del noir all’italiana, quello di Scerbanenco e De Angelis e che non disdegnava atmosfere più cupe, con richiami al grottesco e al cyberpunk, il gruppo aveva dato una nuova connotazione a quel fantastico che era già stata la cifra di un altro milanese (integrato) come Buzzati. Ma all’ombra delle Due Torri non accadeva solo questo. Gli anni Novanta sono stati anni strani, anni in cui acquisivamo la consapevolezza che l’incanto si era spezzato. Allo stesso tempo, però sentivamo di dover chiudere finalmente i conti con la storia del Novecento, con il millennio e tutto il resto, gli anni della polvere sotto il tappeto, del muro di gomma a fare ancora da barriera a certi misteri di Stato ma anche a misteri apparentemente più piccoli. E allora ci accorgiamo che la narrazione maggiore – quella di Ustica ad esempio – trova punti di contatto con certe narrazioni della gente comune. Via Poma, Marco Dimitri, i fratelli Savi e la loro Uno bianca… Tutti questi eventi, nomi, date, si impastano e rimescolano fino a diventare una nuova vulgata. La gente comune è ora attratta morbosamente dai nuovi casi di cronaca nera che, altrettanto morbosamente, riempiono prime pagine e i palinsesti delle piattaforme streaming. Eppure, qualcuno aveva anticipato i tempi. Ad esempio, un gruppo di scrittori che a partire dai primi anni Novanta solleva il tappeto e ci sbatte in faccia lo sporco che nasconde. Sono i cosiddetti Cannibali: così li chiamò Daniele Brolli nell’antologia che curò nel 1996, Gioventù Cannibale

Storie di quotidiana brutalità, popolate da mostri della porta accanto, banali, quasi anonimi rispetto ai loro più famosi predecessori.  L’incubo metropolitano è fatto di figli, amici o semplici sconosciuti che diventano assassini per noia, per interesse, per puro sadismo o ferocia fine a sé stessa. Cronaca e finzione si mescolano, senza soluzione di continuità e le città finiscono per assomigliare sempre più alla Londra di Dylan Dog, investigatore di quell’incubo di carta e china, nato dalla fantasia di Tiziano Sclavi, snobbato dai fans di Tex Willer e Diabolik ma iconizzato dai loro figli.

Il movimento cannibale non era diverso dalla società che lo ha generato. Come un Leviatano, per qualche anno ha agitato il mare dell’editoria, per un fugace momento lo ha dominato, ma poi ha finito per fagocitare tutto, anche sé stesso. Eppure, la sua essenza, più che il semplice ricordo, è sopravvissuta al suo stesso nome. Ha dato l’imprinting a una nuova generazione di scrittori affascinata dall’estetica di questo movimento non compreso fino in fondo, quasi ghettizzato e l’ha riformulata. Ha guardato a quelle storie usando un filtro, ha addomesticato la ferocia con il riuscito espediente del gotico, del realismo magico di un tempo, con richiami al folklore e all’esoterismo.

A quasi trent’anni dalla celebre antologia, i Cannibali continuano a mordere attraverso nuove bocche e nuovi denti forse meno affamate di un tempo ma consapevoli di quanto quella narrazione della realtà sia stata profetica. Oggi che la cronaca ci restituisce verità ancora più agghiaccianti delle storie di lupi mannari bolognesi o certe ritualità fluo. 

Cosa ne è stato di quella generazione di scrittori che, in blocco, sembrava destinata a macerare i vecchi arnesi della narrazione italiana? Si sono sparpagliati, un poco anche dispersi, ma il seme fu piantato. E oggi che Aldo Nove con Pulsar conferma la nuova vocazione autobiografica, ma non rinuncia a un linguaggio crudele; Isabella Santacroce con Magnificat amour accosta desideri e calvari (con Il Saggiatore a patrocinare il repêchage dei vecchi cannibali: si conta anche la riedizione di Woobinda) e, infine, Enrico Brizzi annuncia il sequel di Frusciante, si fiuta da lontano – forse – di nuovo l’odore acre di eccessi dimenticati.

Saranno accolti saggi (max 30000 battute) o articoli (max 15000 battute) su autori e temi legati ai Cannibali, con una attenzione particolare ai caratteri di un fenomeno ormai storicizzato; a quanto si è conservato della esperienza originaria e quanto è stato mutuato nelle scritture odierne e nei nuovi media, digitali e non.

Le proposte di contributo, con allegato abstract di max 150 parole e un breve profilo biografico, vanno inviate entro il 31 05 2024 al seguente indirizzo e-mail :

letterazero.nuovaserie@gmail.com

In Schede

Il sogno di un’Italia da bere

di Valentina di Corcia

Lo spot pubblicitario di un noto amaro è la fotografia perfetta dell’Italia degli anni ottanta, la narrazione pop del rampantismo di quegli anni: la Milano da bere entrerà nel linguaggio comune al punto di diventare un modo per definire quel periodo storico e gli uomini che lo hanno animato. La storia raccontata in questo libro, esempio di non-fiction che alla biografia abbina romanzo e saggio proviene, in buona misura, da quel mondo. Sebbene il suo protagonista in quel mondo non sia mai affondato del tutto. Lui lo ha divorato, arrivando a cambiarne le regole, inventandone di nuove. Il self made man, il tuffatore di Paestum, romagnolo, sanguigno e visionario, a tratti surreale, sembrava essere uscito dalle pagine di un romanzo d’avventura, anzi, meglio: la sua vita è stata talmente ricca di avvenimenti reali e romanzati, avvolta da quell’aura di mito che fa la fortuna di pochissimi, da farci venire alla mente il protagonista di  una sceneggiatura di Fellini e Guerra. 
Capitano d’industria e capitano di ventura, innovatore e romantico, classe 1933, uno dei protagonisti indiscussi della Prima Repubblica: Raul Gardini. 
Dopo una vita costellata di successi privati e pubblici,  nel 1988 realizza quello che nessuno aveva mai neppure ipotizzato: attraverso una joint venture unisce Montedison ed Eni: nasce Enimont. E così il tuffatore, l’uomo che si muove tra una dimensione e l’altra,  che sfida la sorte, porta a compimento il suo progetto avveniristico, potremmo dire utopico. Gardini prospetta un modello economico che fa saltare tutti i parametri : produrre chimica verde e creare energia di derivazione agricola. Da qui in poi la sua storia di uomo e imprenditore diventerà sempre più densa. Gardini,  il suo sorriso bianchissimo, i suoi modi concreti, lo sguardo rivolto a un futuro che i più non riescono ancora a scorgere, diventa una vera icona di quegli anni, riuscendo ad offuscare quella del monarca dell’industria italiana, Gianni Agnelli. Questi sono gli anni in cui le sue gesta gli varranno i soprannomi di pirata e ultimo imperatore di Ravenna. Accanto alle scorrerie nel mare della finanza alternerà le regate  della  Louis Vouitton Cup prima e dell’America’s cup, dopo. A capo del leggendario Moro di Venezia, affiancato da un giovane Paul Cayard, appassionerà gli italiani alla vela, rendendola più popolare e meno elitaria. Gli anni dall’ottantotto al novantatrè registreranno l’apice della sua fortuna ma anche l’inizio del suo declino. Nel 1992 l’Italia intera verrà scossa dalle fondamenta: inizia la stagione di “Mani Pulite”. Ad essere coinvolti saranno i principali attori sulla scena della Prima Repubblica,  tra i nomi della politica, della finanza e imprenditoria, spicca quello di Raul Gardini che sarà uno dei principali imputati e verrà condannato per finanziamento illecito ai partiti, la sua passerà alla storia come” la madre di tutte le tangenti “. Nel giugno 1993 si suiciderà nella sua residenza milanese.

Elena Stancanelli, “Il Tuffatore”
La Nave di Teseo, Collana Oceani, 2022
18 euro 

In Lavoro Critico

Call for Papers – Il cosiddetto iconico: new frontiers

Con quale grado di consapevolezza oggi utilizziamo il termine “iconico”? Lo sappiamo: iconico ha a che fare con l’icona. L’etimo ci rimanda ad immagine, ma le sue applicazioni sono molte.In semiologia l’icona è un segno che assomiglia a ciò che rappresenta; nell’arte religiosa, invece, le icone erano e sono utilizzate come simbolo; la loro funzione è di unire una comunità attorno a valori condivisi dalla comunità cristiana, attorno a determinati valori comunicati: il bene opposto al male.In epoca moderna con iconico si è venuto a ad indicare un fenomeno di aggregazione delle masse, a partire da una immagine riconosciuta come rappresentativa di un fatto, di un contesto.         

La questione, dunque, riguarda non tanto il fenomeno quanto i processi che lo hanno interessato: non è il termine ad aver cambiato significato, è il concetto di sacro o di sacrale ad aver assunto un significato diverso.         

In sintesi: L’iconico è un codice universale, il cui significato è cambiato in relazione a nuove forme di devozione.         

Oggi iconico, nel significato contemporaneo, è termine che appartiene soprattutto al contesto anglofono, in quanto assunto dal binario della comunicazione glamour: è ciò che, in ragione della sua popolarità, è in grado di essere rappresentativo ed emblematico; in grado di “fermare” un momento del tempo, di imprimersi nella memoria. È parola che, nella sua valenza di plastica rappresentatività, è diventata pervasiva, specialmente dalla diffusione capillare dei social; in particolar modo da quando i social hanno subito una sorta di mutazione genetica, ossia da un paio di lustri a questa parte, passando dall’essere uno spazio di opinione e, quindi, di scrittura condivisa, ad album di immagini, foto, meme, il cui supporto verbale è il più delle volte quello di una canzone a sua volta iconica nella figura del suo interprete. Iconico è, dunque, uno di quei (molti) casi che in linguistica sono detti latinismi di ritorno: dall’ormai vecchissimo computer al meno vecchio app, lo schermo della lingua globale applicata a fenomeni del visuale ci restituisce un mondo in cui l’impressione o l’impressionabilità è tutto.


Si accolgono:

1) contributi di taglio critico ;
2) contributi multimediali (foto, cortometraggi, spot pubblicitari)

Gli interessati sono pregati di inviare entro il 31 gennaio 2023 una proposta di contributo con le indicazioni di argomento e abstract (70 parole max) ai seguenti indirizzi:

zoeydc77@gmail.com

antonio.daniele@unifg.it

letterazero.nuovaserie@gmail.com

In Schede

Come il Gatto di Schrödinger – recensione a “Così per sempre” di Chiara Valerio

di Valentina di Corcia

Così per sempre di Chiara Valerio è la storia di esseri straordinari dentro vite ordinarie. 

         Giacomo Koch è un medico del Fatebenefratelli, anatomopatologo per la precisione, sebbene il suo cognome ci porti con la memoria gli studi batteriologici. Ma per il lettore comune spesso la medicina è tutt’uno: una grande scienza del corpo.

          Giacomo Koch vive a Roma, il suo laboratorio è a Isola Tiberina e affaccia sul Tevere. Fuori dalle finestre, mentre lui è impegnato a “cercare una connessione tra organi e vita”, il fiume scorre e a lui basta osservarlo per ricordarsi di sé e che tutto ciò che scorre è il segno di una vita, di attività: come  l’acqua così il sangue che avanza  e poi di colpo si condensa in grossi grumi, coaguli carichi di ricordi e di sofferenza: Giacomo Koch è Dracula e, parafrasando Burroughs, il suo passato è un fiume malvagio. 

         Questa storia è fatta non dallo stigma del contagio ma dalla condanna alla solitudine. Così, per sempre, è la promessa incantatrice, di cristallizzare un momento e renderlo sempre uguale a se stesso, di sfuggire alle leggi della natura e creare vita dalla morte.  Scritto con lo stile del memoriale, corredato da annotazioni finali, è un romanzo che conserva anche i toni della tragedia shakspeariana e i riferimenti al romanzo nero inglese: c’è il monstrum, c’è il “doppio”; riscrittura  del classico, mediata dal modello cinematografico. Sembra una dote di poco conto, invece è molto per il lettore attento, come per quello appassionato che vi troveranno richiami gradevolmente noti o stimoli insospettati.

         La narrazione procede fluida, articolata in dialoghi preceduti da brevi annotazioni del narratore. Si passa velocemente dall’oggi al passato. Il tempo è la spirale dove su ogni cerchio si collocano i personaggi di questa storia, come gli elettroni sugli orbitali. Al centro, nel nucleo, ci sono Giacomo e Mina.

         Come Proust, Giacomo vive la sua “non-vita” à la recherche non del tempo perduto ma del senso stesso del tempo. Il sangue è la sua madeleine, quella materia viscosa e ferrosa che gli riporta alla mente vite e mondi che ha vissuto e divorato, vorace e famelico. Gli istinti dei primi tempi che negli ultimi due secoli ha imparato a moderare, addomesticare, grazie alla mediazione delle scienze esatte e della psicanalisi, nella quale cerca conforto e confronto. In un dialogo con Jung si dice inestinto, né vivo, né morto: Dracula sfugge alla binarietà, alle convenzioni. È vivo e morto insieme, è uno dei paradossi della fisica, quello del Gatto di Shrödinger.

         Mina Murray ora è Mina Monroy: è il suo antico amore ma sono lontani i giorni in cui lei e il conte vivevano felici e innamorati. A distanza di mezzo secolo dal loro addio Mina vive a Venezia e ha nuova compagna. Ha cambiato, nuovamente, vita; ha sparigliato le carte e stabilito da sola le regole, si è creata nuove abitudini e le ha mescolate alle antiche passioni. Ma è un essere mortale e si ritrova stretto negli abiti soprannaturali che ora vorrebbe strapparsi di dosso, ma non può. Allora decide di incarnare pienamente lo spirito della città bella ma malinconica, decadente quanto basta. Indossa tabarri e  calza friulane, si circonda di oggetti preziosi e opere d’arte. Consacra se stessa alla bellezza e al ricordo nella sua casa-museo, quel Palazzo Venier che ospitò le bizzarrie e gli eccessi di tre icone del novecento, la Marchesa Luisa Casati, Doris Casterlrosse e Peggy Guggenheim (Mina pare racchiuderle in sé tutte quante). Donne chiacchierate, con una condotta di vita ben lontana dalla morale dell’epoca eppure hanno dominato, ognuna a modo proprio, quel secolo.

         Chiara Valerio cattura il lettore in un dialogo che procede facile e naturale, nel quale il botta e risposta tra gli interlocutori è talmente serrato da sembrare il discorso di un unico attore. Il ricordo di avvenimenti passati si insinua e puntella la descrizione degli avvenimenti presenti, fatta anche della personalità dei personaggi, del loro modo di vestire, di una risata, del modo di fumare. Di momenti ordinari di vite straordinarie.

Chiara Valerio

Così per sempre

pp. 464, € 22,00

Einaudi Super Coralli, Torino, 2022

In Schede

Il museo del dolore. Su “Il valore affettivo” di Nicoletta Verna (Einaudi, 2021)

di Valentina di Corcia

Questo è un romanzo diretto, pulito. Anche le nostre cose peggiori tra le sue pagine paiono normali.

Il valore affettivo è il romanzo di una disgrazia che preme sulle vite di tutti: preme anche sulle nostre che leggiamo comodi in poltrona, perché le vite di persone che sembrano comuni e non lo sono ci piacciono tanto. Lo sappiamo: c’è quel piacevole sentimento del sentirci migliori di loro a farcele leggere, perché “tanto a noi non accadrà”.

La vita di Bianca si divide in due fasi, prima e dopo “la disgrazia”: da una parte l’esistenza serena di una famiglia operosa, di quelle da “nocciolo duro” della provincia, dall’altra la morte. Di colpo la famiglia si sfalda: la casa diventa un museo del dolore in cui si sopravvive e ogni giorno è uguale all’altro. Anche Bianca sopravvive, con tutta la forza dei suoi sette anni. Ci sono un padre spaesato e una madre inebetita da tivvù e psicofarmaci. La sofferenza stratifica e, nella memoria collettiva, il ricordo di Stella sfuma nel mito.

Quanti gradi conosce il dolore? Ce lo siamo mai chiesto? Quanto bisogna scavare a fondo per arrivarci dentro? Bianca li ha provati tutti i gradi del dolore, e sicuramente ha scavato così a fondo da arrivarci mani e piedi. Ha grattato talmente tanto a fondo da raschiare tutto il resto e starsene lontana da sentimenti e sensazioni, belle o brutte che siano. Al loro posto ha imparato a coltivare l’ossessione: se la tiene stretta come il desiderio di quel giocattolo mai avuto in dono.

Bianca sviluppa una versione pubblica e una privata, la Bianca bambina. Nel mezzo c’è la adolescente, che indossa gli abiti eccessivi dello show televisivo anni Novanta, tutto cruciverboni e canzoni in playback, la Bianca adulta si corazza in eleganti abiti griffati, non ammicca più dallo schermo ma continua a interpretare un ruolo. Ha costruito con determinazione e una certa dose di lungimiranza una vita che sembra la sceneggiatura di una fiction da prima serata, sulla rete ammiraglia della televisione di Stato. È la protagonista di una storia che passo dopo passo rimaneggia a suo piacimento, conducendo il lettore in una lenta calata agli abissi.

La cosa più facile di tutte sarebbe far discendere una certa maniera di scrivere, di comporre i pezzi della storia (anzi, di scomporli e di assemblarli in vertiginose scene retrospettive) dal profilo professionale di Nicoletta Verna, dal suo lavoro nel campo della comunicazione. Non si può negare che la familiarità della scrittrice con i meccanismi dei media ne abbia favorito richiami espliciti a momenti-chiave della storia della televisione italiana appena dopo la fine della Prima Repubblica; ma qui c’è dell’altro: siamo di fronte addirittura a dinamiche che le hanno suggerito – in una specie di infusione mentale – di aderire alla diffusa modalità del nostro narrare in grado di alterare di continuo il piano temporale. In questo caso la ricerca insistita di una simile soluzione si combina agli assilli dei personaggi e questa ossessività dona la terza dimensione a personaggi e ambienti, ponendo lo scellerato piano ideato dalla protagonista a nesso che collega eventi e attori, dall’inizio alla fine. Attorno all’evento principale gravitano fatti-satellite, forse meno importanti ma necessari ad alzare il livello di gradimento e a garantire l’attenzione del lettore lungo il romanzo.

I rifiuti sostituiscono i sentimenti che non prova più da anni, dalla disgrazia; riempiono il vuoto della sua anima. Le giornate sono scandite da rituali recisi e collaudati: fare una stima di quanta spazzatura ha prodotto  le consente di ricreare un ordine, seppur effimero. Il controllo dei rifiuti è un ordine apparente, provvisorio. Proprio per questo non la appaga mai.

Mentre leggevo di questo assillante rapporto con i rifiuti, mi è tornato alla mente Pezzetti di spago assolutamente inutilizzabili di Camilleri, la storia di quel ragioniere che conservava e poi con scrupolo catalogava tutti i suoi rifiuti, finanche quelli organici, arrivando a trasformare la sua casa in un grottesco mausoleo col quale consegnare alla memoria di qualcuno la sua personalissima eredità. Non si tratta di semplice accumulo compulsivo bensì di un’interpretazione scellerata e distorta del principio di autoconservazione: conservando rifiuti si illude di cristallizzare nel tempo ogni giorno della propria vita.

Tuttavia, la sensazione di disagio che provai tra quelle pagine mi pare diversa dalla pena che suscita questa storia perché, se il ragioniere di Camilleri sembra voler lasciare memoria di sé attraverso i suoi stessi rifiuti, Bianca instaura con la spazzatura un rapporto altrettanto morboso ma investito di un potere purificatorio. Il suo maniacale attaccamento agli scarti, la sua ansia di procurarsene nuovi fino a “rubare” quelli altrui, le donano l’illusione di regolare l’andamento degli eventi, di riportare ordine lì dove regna il caos. Bianca attua dei rituali coi quali mortifica se stessa ed espia la colpa della quale crede di essersi macchiata. Sviluppa un “doppio”, una proiezione di sé che punisce attraverso tutto ciò che è rifiuto, fino a rendere spazzatura essa stessa. Il valore affettivo narra una specie di dr. Jekyll che non riesce ad opporsi ad Hyde. Vi è, anzi, un rapporto talmente simbiotico da innescare in Bianca una vera e propria dipendenza, in uno sviluppo di situazioni grottesche e al limite del surreale

In Tu con Zero - Le interviste

Il mattone e New York: su La Fabbrica del Santo

Valentina di Corcia intervista Leonardo Gliatta

Valentino e Tore, figli della generazione di mezzo, quella a metà strada tra l’analogico e il digitale, disinteressati al dibattito politico e lontani dal clima barricadero dei cortei e della contestazione giovanile, vivono in attesa di andare via da un paese del sud Italia diventato famoso per il santo del nuovo millennio.  Un romanzo che ci riporta indietro nel tempo, agli anni Novanta, gli anni dell’ultimo segmento di benessere collettivo e dei cambiamenti sociali di cui solo oggi ci rendiamo conto, in una provincia pugliese che fonda la sua ricchezza nel grano e nel “mattone”, una realtà nella quale i due protagonisti si muovono a ritmi diversi: Valentino, con la sicurezza e la spavalderia del suo rango altoborghese, e Tore, con la cautela e il buonsenso di chi sa di doversi guadagnare ogni particella di felicità. Tra di loro Marida, sensuale e ipnotica creatura: amica, sorella e amante. Per tutta l’adolescenza le loro strade si intrecciano, si fondono fino a diventare una linea unica, che si inerpica tra le viuzze ripide di San Giovanni Rotondo ma che con  l’età adulta si biforca: da un lato, oltreoceano, nel reticolo fitto e regolare di Manhattan, dall’altro poco più a valle del paese, lì dove sorgerà la fabbrica del santo. L’obiettivo comune è continuare a salire: salire alla ricerca della perfezione ma anche sfuggire al destino mortale e raggiungere il sole.
Questo racconto di provincia, le cui pagine trasudano l’atavico desiderio di riscatto e rivalsa tipico di chi è nato al Sud, è  La Fabbrica del Santo, romanzo d’esordio di Leonardo Gliatta. Abbiamo intervistato l’autore per ripercorrere con lui i passaggi  salienti della storia.

La costruzione di un’amicizia e, parallelamente, la costruzione di una basilica.
Costruire un rapporto è come edificare una basilica, un santuario?

I due ragazzi del romanzo, Salvatore e Valentino, si conoscono, crescono e vivono mentre alle loro spalle si erige la nuova basilica di Padre Pio. Così come la fabbrica del santo è un cantiere vivo, fatto di ripensamenti, stop improvvisi, ritardi, intoppi, e di altrettanto inaspettate accelerazioni, anche il rapporto tra i due è un organismo vivente che palpita, brucia in vampate e scoppietta sottotraccia. Entrambe le costruzioni sono mosse da un forte desiderio, segnate da un destino che ha dell’irreparabile. Si deve portare a compimento la nuova casa del santo, costi quel che costi, e si deve tenere uniti, in una relazione simbiotica, i due amici affinchè la missione che hanno su questa terra si realizzi. In fondo, che cos’è l’amicizia se non un atto di fede?

Tore e Valentino: necessari l’uno all’altro eppure inevitabilmente rivali, stritolati in un rapporto eternamente in bilico tra il desiderio di sopraffazione e la ricerca di una metà complementare. Un sentimento profondo, a tratti ambiguo che ad un certo punto viene messo in crisi dall’arrivo di una donna: Marida. Qual è il reale ruolo di questa figura femminile?
Marida è il vertice della piramide, è l’anello di congiunzione tra Salvatore e Valentino. È sul suo corpo che i ragazzi si fanno la guerra, è il loro terreno di battaglia. La ragazza però, come tutti i personaggi è sì una vittima, ma è allo stesso tempo anche cosciente di quello che vuole: arriva a frapporsi tra i due perché sa di essere l’ago della bilancia, tenta di ottenere il suo tornaconto inseguendo il sogno di riscatto dalla provincia, ma si accorgerà presto di trovarsi in trappola.

In alcuni passaggi la scrittura diventa chiaramente cinematografica e rievoca, nella memoria del lettore, un certo cinema d’autore, in particolare quello di Bertolucci o Patroni Griffi… Quanto è importante il linguaggio visuale nella comunicazione contemporanea?
La mia formazione è cinematografica, ho studiato cinema e sceneggiatura. Quando penso una scena la racconto come se la vedessi al cinema. Oggi non esiste comunicazione che non sia prima di tutto visuale. Viviamo oggi più che mai in un regime scopico. Bombardati come siamo dall’informazione, da mille stimoli che il cervello fa fatica ad elaborare, per far passare un messaggio cerchiamo scorciatoie. Non si ha più tempo di assimilare un concetto, di descriverlo in pagine e pagine, tutto deve arrivare qui e ora allo spettatore/lettore. Instagram è il segno dei tempi, una immagine deve significare un intero discorso di senso. Stessa cosa accade nelle forme di comunicazione più tradizionali, come i romanzi. Sempre più brevi, sempre più sinottici, con frasi che sembrano uscite da una canzone rap, che cercano l’effetto, che squarcino mondi. E’ un nuovo linguaggio, più vicino alla poesia che alla prosa, che mi affascina e mi stimola. 

Passando tra le maglie del romanzo, sembra emergere una certa estetica della narrazione che richiama da vicino – per esempio – alcune scelte e alcune opzioni care a Nicola Lagioia, l’ultimo Lagioia, quello della Ferocia e della Città dei vivi, una certa tendenza al non-fiction novel che ammicca agli scandali dai salotti buoni di provincia. Forse anche una certa tendenza tutta nostra, tutta levantina di affrontare certe forme del narrato. Cosa c’è di tutto questo nel tuo romanzo? O, comunque, quanto pensi sia importante oggi una proposta narrativa così strutturata?
Ti ringrazio per la domanda, che mi permette di approfondire un aspetto importante della scrittura che sta dietro al mio romanzo. Il genere del non fiction novel ha padri illustri, come Truman Capote e Carrére, che partono dal sostrato di cronaca per piegarla ai propri bisogni estetici. Lagioia con gli ultimi due romanzi sposa questa formula narrativa, con un intento chiaro di rappresentare una società esausta, abbandonata ai suoi vizi, intrinsecamente corrotta dal capitale. Nel mio romanzo si respira l’aria levantina dei salotti buoni, in certi discorsi che l’avvocato Giurato fa a Salvatore si rintraccia il prototipo dell’istrionico, dell’affarista esperto, serpentino ma mai spietato, che è tipico del nostro territorio. I fatti di cronaca che riporto in vita, sono quelli legati alla vicenda umana e giudiziaria del faccendiere foggiano Raffaello Follieri, che giovanissimo tentò la scalata al potere negli ambienti ecclesiastici americani. Assurse agli onori delle cronache rosa per la sua love story con una allora sconosciuta Anne Hataway. Il percorso narrativo di Valentino si innesta così su quello reale di Follieri, e la fiction si rivitalizza grazie al reale, ne riceve struttura senza alterare i connotati drammatici.

Una prima prova sicuramente ben riuscita, la tua, un romanzo scritto bene e che,  prestandosi a diverse chiavi di lettura, affascina  e mantiene viva la curiosità del lettore  dalla prima all’ultima pagina. Cosa ha rappresentato per te La Fabbrica del Santo e cosa vorresti ancora raccontare ai tuoi lettori?
Il romanzo è un’opera prima, ho impiegato molti anni per dare la giusta forma a una storia che mi ronzava in mente. E’ una storia imperniata su un rapporto viscerale, totalizzante, tra due ragazzi, costruita su due personalità antitetiche ma complementari. Ho attinto ai miei ricordi, è un racconto intimo e personale, che ho dovuto guardare sotto la lente di un topos classico, quello della ascesa e della caduta, della hybris greca. Ne avevo bisogno per prenderne le distanze, per non farmi fagocitare dalla relazione conflittuale dei due. Il mondo dell’adolescenza è una attrazione molto forte per me, un terreno di indagine su cui sento di dovermi spingere. E’ un periodo della vita in cui l’identità è in divenire, in cui non siamo ancora condizionati dalle regole sociali. Ecco, questo mondo, quello dell’eterna possibilità, dove si può ancora essere quello che si vuole, è lo scenario in cui vorrei muovermi. Fertile, inesauribile, cristallizzato in un eterno presente.

Leonardo Gliatta è nato a Foggia, nel 1977. Ha studiato Scienze della Comunicazione all’Università di Siena, dove si è laureato in cinema, con una tesi su Wong Kar-wai.
Scrive racconti per diverse testate (Crackrivista, Racconticon, Blamrivista), e antologie (Giulio Perrone Editore), sceneggiature per serie tv (Mediaset)  e radiodrammi (Lifegate Radio). Nel 2020 ha pubblicato il suo primo romanzo, La Fabbrica del Santo, per Ianieri Edizioni.
Si occupa di media strategy e analytics per le reti del gruppo Discovery Italia (Real Time, Nove, Dmax).

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