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Storia di un baleniere delle Azzorre

di Leonardo Gliatta

Don Pedro Monteiro Pereira era sempre stato sensibile al fascino femminile. Di qualunque stagione della vita. La sua prima donna fu una bagascia attempata dell’Alfama, che lo svezzò a dodici anni: come appariva minuscolo in quel letto gigante con le cortine di pizzo. Le carni ancora sode della buona Berenice, che tutta l’Alfama chiamava Berenice la meretrice – forse fu lei stessa a darsi questo appellativo – lasciarono un marchio indelebile sulla pelle trasparente del giovanotto, che da quel momento inanellò tutta una sfilza di donne mature, molto più grandi di lui, ingegnose nel piacere e prodighe di buoni consigli. Don Pedro divenne così, in poco tempo, famoso tra le case di tolleranza di Lisbona per le dimensioni e la destrezza del suo affare, un ordigno sempre pronto ad esplodere, capace – come si andava narrando – di ore infaticabili di lussuria.

Quando conobbe quella che poi diventò sua moglie, Marta Alvares De Melo, fu costretto ad ampliare i suoi orizzonti. Figlia di un ricco industriale delle Azzorre, socio di maggioranza della prima fabbrica di lavorazione delle pelli di balena del paese, la rampolla aveva appena sedici anni quando conobbe il priapo della capitale. Erano gli anni sessanta, Don Pedro era andato a studiare biologia marina a Ponta Delgada, sull’isola maggiore delle Azzorre, Sao Miguel.

Un suo zio prete lo riuscì ad iscrivere in un collegio di gesuiti, dove, per mantenersi agli studi universitari, prestò servizio come educatore per le matricole. Molte furono le leggende che si diffusero tra i giovani azzorrian: l’educazione che impartiva quel ruvido lisboeta serviva più di tanti libri e punizioni. Anche qualche padre gesuita si racconta che passasse notti insonni tra le lenzuola di Pedro.

Sao Miguel, d’altronde, era rinomata per essere un paradiso in terra, vi crescevano piante e fiori rari, indigeni. Il campus dell’Università era tutto un tripudio di palmeti, vegetazioni autoctone, fontanili, cascate, giardini pensili.

Il futuro don Pedro all’ultimo anno della sua segnatura, prima di diventare biologo marino, iniziò a lavorare per un centro di ricerca e osservazione della fauna marina, sull’isola di Faial, all’epoca punto d’approdo dei mercantili e navi da crociera che solcavano l’Atlantico. Horta, la città più grande, aveva stregato il giovane dalla terraferma, per quell’aria di struggente malinconia che si portava addosso. Rifugio dei vagabondi del mare, tutti facevano una sosta al Peter’s Bar, frequentato da gente di ogni risma, ma accomunata da un sentimento di perdita che si leggeva negli occhi brumosi e disperati. Pedro quando non lavorava si gettava al porto grande, sulla marina, e si mischiava al popolo del mare. Uomini che viaggiavano soli, calzavano sandali. A volte, raramente, si accompagnavano a donne ossute. Con i loro capelli corti, rigidi di salsedine, erano donne che non parlavano, che mai fiatavano. Da Peter bevevano gin, anice, liquori, birra, perché ai loro uomini, che bevevano un po’ di tutto, piaceva vederle bere. Pedro incontrava ogni sera un pezzo di mondo, ascoltava storie tristi, prendeva parte a risse di ubriachi, i coltelli venivano estratti per una parola fuori posto, per uno sguardo avventato.

Più di tutti, gli piacevano i marinai appartati, in un angolo del bar, che scrivevano cartoline alle loro donne, e le lasciavano lì, su una trave marcita appesa su un fianco del locale.

Quella storia delle cartoline postali mai spedite, ma scritte con trasporto e raccoglimento, lo impressionava. Osservava le facce di questi uomini che non si radevano da giorni, con dita sempre troppo grosse, con unghie spesse e falangi nodose, indurite dal lavoro con le corde e i remi. Dita grosse, una scusa che può venire in aiuto, quando per anni non hai scritto alla famiglia.

Un giorno si trovò a parlare con un uomo alto, segaligno, ben vestito, una pipa al lato della bocca, che di tanto in tanto rimestava il tabacco bruciato con uno spadino metallico. Tirava lunghe boccate e ne offrì a Pedro, aveva un accento isolano, non era uno di passaggio.

“Ti vedo spesso, qui sul molo.”

Pedro raccontò di sé, le sue origini, biologia marina. La sua passione per la gente dell’Atlantico.

“Un altro romantico. Poi si finisce come me, con una pipa di fronte all’oceano. Ti deluderà, ma nessuno di questi marinai ha nostalgia, di niente e di nessuno.

Il mondo per loro è un lungo e solenne dimenticatoio. Vagano per i venti e le acque del mondo come se scappassero da una malattia contagiosa. Ritornano al punto di partenza solo perché la terra è rotonda e il mare è la strada che li porta in circolo. Viaggiando da soli, quello che li tormenta non è la paura della solitudine o il tedio dell’azzurro immenso, ma la mancanza d’amore.”

Quell’uomo si presentò: Achille Alvares de Melo. Era il titolare dell’industria che faceva mattanza di balene. Tanto aveva sentito parlare di lui, al centro di ricerca. L’uomo che andava fermato, il Golem, l’Hitler dei cetacei, lo spietato assassino di creature marine.

Che fumava la sua pipa perso nella linea dell’orizzonte.

Venne di soppiatto una fanciulla, lo chiamò da lontano, mentre scendeva dal barrio alto.

Gli corse incontro e l’uomo l’accolse tra le sue braccia.

“Questa è mia figlia Marta.” La ragazza aveva una gonna a pois, rossi e bianchi, due ginocchia tonde e delicate, una voglia sulla coscia sinistra, a forma di cuore.

Pedro, nei giorni successivi, non capiva perché con la mente non facesse che tornare a quella visione, di quella voglia scura sulla pelle leggermente abbronzata. E come si eccitava, al pensiero di metterle la mano sopra, e spingersi tra quelle cosce tenere. Per la prima volta, era attratto da una non ancora donna.

Pedro vinse rapidamente le sue e le resistenze dei colleghi biologi, e convolò a nozze con la figlia dell’industriale salazarista, divenendo così il socio di minoranza della impresa di famiglia.

Dal preservarle a dare loro la caccia, le balene atlantiche dovevano sentirsi abbastanza tradite, un cambio di rotta del genere, eppure loro, se ne intendevano, di rotte invertite.

Il grasso di balena era sempre più richiesto in tutta Europa, usato per prodotti cosmetici, e per molte finiture dei tessuti.

L’attività, a metà anni sessanta, era la più fiorente e redditizia delle Azzorre. Pedro, dopo pochi anni, fu insignito di onorificenze al lavoro dai più alti ranghi militari della capitale, per aver dato lustro all’impresa delle isole e rilanciato l’occupazione in quei territori a cui la dittatura teneva moltissimo.

Gli altri fratelli di dona Marta, quando le Azzorre persero la loro centralità nelle rotte oceaniche, e iniziarono un lungo periodo di declino, preferirono cedere la loro quota al cognato intraprendente, e emigrare in Canada, o nelle Americhe.

A Horta rimasero don Pedro, donna Marta e i primi due figli, Joao e Ana, nel loro quintal di campagna, una enorme residenza con animali di ogni specie.

Le fortune della famiglia De Melo, allargata a Monteiro Pereira, rovesciarono in poco tempo. La rivoluzione dei garofani, e ancora più incisivamente l’adesione del Portogallo alla legislazione internazionale di proibizione della caccia alla balena, segnò il momento di svolta nella vita della famiglia, che nel frattempo era arrivata a quota sei. Si erano aggiunti il padre di Alex, Mateus, terzogenito, e lo zio Eusebio, nati entrambi a Lisbona, dove Pedro aveva fatto costruire il palazzetto a tre piani nel quartiere di Tiradentes.

Ultimo arrivato, quando ormai dona Marta era in là con gli anni, lo zio Pedro segundo, che però morì di meningite quando era ancora bambino.

La fabbrica a Porto Pim, nell’amata Faial, fu chiusa, restaurata e trasformata in un museo. Che, vendetta della storia, assunse il nome di “centro scientifico”, con una esposizione permanente dedicata alla biologia delle specie processate in quel luogo.

Con gran sadismo del destino, i suoi ex colleghi dell’osservatorio marino si associarono in una cooperativa e rilevarono la fabbrica, organizzando conferenze e seminari sulla relazione tra l’uomo e il mare.

Don Pedro, dopo avere perso nel giro di pochi anni l’impresa di famiglia e tre dei suoi figli maschi, prima Pedro segundo, poi Mateus e infine il promettente Eusebio, si consumò nelle viscere e nello spirito, dopo avere imprecato tutti i santi, bestemmiato tutte le madonne e dato alle fiamme il crocifisso ligneo del Settecento che aveva portato dal quintal di Horta.

In Narrature/ Narrazioni

Braccia potenti

racconto di Pierluigi Mantova

In quella estate del 1947, in Puglia, faceva un caldo maledetto. Il sole spaccava la terra, sbriciolava le pietre, seccava le piante e ammazzava le bestie. Anche di notte non si respirava.

Vicino la città, sorgeva un casale rustico consumato dal sole, circondato da campi di pomodori e lunghe distese di grano. Non molto lontano, quasi come sputata fuori dal terreno, c’era una baracca di legno sgarrupata e sudicia.

Nell’ora in cui il sole affonda nella terra, dai campi tre figure arrancavano con la testa china e le braccia penzolanti. Erano di altezza diversa, ma vicini d’età.

La sagoma più alta era di Lauro, diciassette anni, soprannominato lo “zingaro” per l’aspetto fiero e selvaggio, dagli occhi verde oliva e la testa ricoperta di ricci neri capricciosi.

«Pronti?» diceva, prima di fare un rutto lungo e sonoro. Si strofinava spesso le unghie nere sull’orecchino, dopo aver pulito le dita sulla canottiera.

La sagoma più bassa e vispa era di Gelsomino, chiamato Mino. Un bambino di dieci anni, che si alzava sulle punte per sembrare più alto e distendeva le braccia in aria, sbadigliando a bocca aperta.

«Oh, così fai appassire i fiori» urlava Lauro con la mano a cono vicino la bocca, menandogli un colpetto sulla nuca. In mezzo ai due scapestrati, quasi a voler scomparire, c’era un giovane vestito di bianco. Era in quell’età della vita dove il corpo inizia a modificarsi e coprirsi di peli, ma lui continuava a conservare un corpo aggraziato e minuto, oltre che un’espressione fanciullesca e beata. E se ne stava lì, come un ago tra i due bracci della bilancia. Il suo nome era Narciso.

«Ti ha morso il ragno, Fiorellino?» disse Lauro frantumando il silenzio.

«Canta» lo incitò Mino all’improvviso, «E canta da’, che ti costa. Siamo troppo stanchi per menarti» aggiunse Lauro con una risata.

Iniziarono a spintonarlo fino a che non uscì un suono dalla sua bocca. Stesi a terra come inondati dal canto, Lauro e Mino chiusero gli occhi e gli sembrava di sentir camminare le tensioni come formiche, dal collo alle braccia, mentre il corpo pian piano si appesantiva.

Nel frattempo, dietro il grano, il sole indugiava per ascoltare quella dolce preghiera, prima di sprofondare tra le spighe trascinando con sé l’ennesimo giorno, amaro di fatica.

Una volta arrivati alla baracca, ancora sudati per il lavoro, si distribuirono i compiti.

Mino raccoglieva la legna, Lauro accendeva il fuoco e Narciso preparava una zuppa e un tozzo di pane per la cena. Fu di nuovo Lauro a rompere il silenzio: «Finita ‘sta campagna, che volete fare?» chiese agli altri, sputando qualche mollica di pane.

«Io vado a cercare mio padre» rispose Mino, dopo aver ingoiato la zuppa, «Divento ricco e mi compro sti terreni».

«Mino, senti a me, una vita non ti basta per diventare ricco» disse Lauro «Signori noi non ci diventiamo. Forse padroni sì, ma signori…lascia perdere». Mino gli fece una pernacchia e iniziò a ridere a crepapelle, fino a cadere all’indietro.

«Ridi, ridi pure cretino!» disse Lauro, lanciandogli una spiga vuota.

«E tu?» chiesero a Narciso, che aveva appena finito di ricostruire il silenzio, «Che farai eh?» insistette Mino.

«Ti ha morso di nuovo il ragno Fiorellì? Mannaggia a sti ragni, dobbiamo ammazzarli…ce ne stanno troppi!» così Lauro rispose al posto suo, mentre accarezzava la guancia dell’amico con le nocche grigie di polvere.

«Io rapisco la serva del padrone, ci sposiamo e andiamo a vivere da un’altra parte» aggiunse Lauro,

«Leuca?» chiese Mino stupito «Devi prima uccidere il padrone» puntualizzò, aggrottando le sopracciglia.

«Lo ammazzo a quello scemo prima o poi, ci puoi scommettere» disse Lauro, mordendosi il labbro come se cercasse di sfogare la rabbia in un punto preciso del suo corpo.

“Ammazzare il padrone, che scemenza ha appena detto” pensò Mino, esplodendo di nuovo a ridere. Parlavano un dialetto incomprensibile, ma si capivano.

Finito di mangiare, Mino prese l’armonica dalla tasca e iniziò a soffiarci dentro.

Lauro corse a prendere il tamburello e si accodò, guardava Narciso con sguardo complice mentre picchiettava lo strumento. C’era qualcosa di gitano in quella musica. Ruotavano intorno al fuoco, saltando da un punto all’altro del falò.

«Ankur!» ululò Lauro alla luna, «Floris! Zahur!» gridava Mino, «Liko..Olmo..Elianto» sussurrava Narciso, seduto immobile davanti al fuoco.

Erano simili a pagani che invocavano il nome dei loro dèi scomparsi: compagni, amici, fratelli spezzati dalla fatica nei campi. Uccisi dalla sete, dalla fame, dalla cinta spietata del padrone.

Il tempo e la terra avevano decomposto i corpi, ma i loro nomi venivano ricordati, ogni notte, da chi viveva la vita come una colpa. Quei sopravvissuti, senza padri e senza patria, che non avevano niente se non la terra e il cielo.

Narciso si alzò lentamente, fissando le fiamme che salivano, intonando un canto nuovo. Le voci dei morti si aggrappavano alla sua, mentre i fantasmi danzavano a fianco dei vivi, in quella prima notte estiva, battezzata dal fuoco.

*

Alle prime luci dell’alba, Rodrigo Mancini stava castrando un maiale. Era davanti al casale e le urla si udivano fin giù al campo. Mino si copriva le orecchie, Lauro e Narciso continuavano a raccogliere i pomodori, piegati verso terra.

Da lontano si potevano contare le vertebre, una ad una, su quella schiena che sembrava spezzarsi di lì a breve. Il sudore disegnava una linea che dalla fronte curvava verso le spalle, lungo le braccia fino alle mani, rendendo la pelle lucida al sole.

Nel casale intanto una donna pallida impastava il pane. Era Leuca il suo nome, cucinava ogni giorno per la signora Dora Mancini, la mamma del padrone, che aveva le mani ricoperte di bolle, piccole e disgustose a vedersi, a causa di una malattia.

Dietro la tenda di camera sua, al primo piano, era solita osservare cosa succedeva fuori: se fosse uscita sarebbe morta, era molto debole sia nel fisico che nella mente, la sua faccia era ricoperta di rughe e la pelle era così secca da apparire squamata. Così trascorreva le giornate a intrecciare cestini di ogni tipo, a cucire tovagliette e centrini per la casa, vestiti per suo figlio Rodrigo come un ragno che tesse la tela con accuratezza geometrica, per renderla magnetica e letale al tempo stesso. Quando erano da soli, i ragazzi la chiamavano Malmignatta (come la vedova nera del Mediterraneo) per prenderla in giro.

Lì fuori, intanto, proprio mentre Rodrigo era riuscito a tagliare finalmente l’addome del maiale, sopraggiunse Mino con una mano stretta ai pantaloni.

«Posso andare a pisciare?» chiese storcendosi tutto, Rodrigo sussultò non sentendo i suoi passi e dimenticò cosa stava facendo. Il maiale sfuggì dalle sue mani ruvide e tozze, con una mossa veloce si divincolò e, strisciando, corse via lasciando dietro una scia di sangue. Il volto del padrone diventò feroce, rosso di rabbia, mentre sul pantalone di Mino prendeva forma una macchia umida e nera.

«Maledetto! L’hai fatto fuggire!» gridò Rodrigo, slacciandosi la cintura mentre si alzava in piedi. Una percossa, un’altra ancora: la testa di Mino ruotava come senza collo.

Si precipitò prima Lauro prendendosi le ultime botte, poi arrivò Narciso con il fiato spezzato per la corsa. Immobile, il padrone fissò lo sguardo del giovane in bianco e sputò per terra, vicino ai suoi piedi. Chiunque avesse toccato quel giovane, avrebbe dovuto fare i conti con Dora, la vedova nera. Componevano una fila adesso, Narciso in testa e Mino in coda, con le mani sul viso sanguinante. Rodrigo rientrò nel casale, borbottando qualcosa tra i denti, mentre la serva usciva, a testa bassa, per medicare il volto del piccolo.

Il canto del gallo inaugurava un altro giorno di lavoro, si erano alzati tardi quella mattina e non c’era tempo per raggiungere il sentiero che li avrebbe condotti ai pomodori. Per far presto dovevano tagliare per il campo di grano, di solito evitavano di passarci per timore dei ragni. Nessuno di loro ne aveva mai visto uno, ma Leuca gli ripeteva sempre:

«Non passate per i campi di grano, se non volete essere tarantati» così si usava dire da quelle parti, quando un ragno mordeva qualcuno.

Lauro e Mino entrarono nel campo mentre Narciso restò fermo lì, davanti al grano alto.

«Dai che facciamo tardi!» gli gridarono Lauro e Mino sfrecciando a grande velocità, ridendo e spingendosi come due scapestrati, mentre Narciso s’incamminava tra le spighe, a passi piccoli e incerti. Dopo essere caduto, Mino si rialzò gridando:

«Via, via! C’è una taranta!», Lauro rise credendo fosse uno scherzo, poi s’accorse che una taranta nera, macchiata d’arancio sul dorso, camminava proprio davanti a loro.

«Fermi, non muovetevi» disse Narciso, paralizzato. Gli altri scattarono come gazzelle alla vista di un leone, di colpo, con gli occhi sbarrati e la bocca contratta per la paura. Balzavano in avanti senza guardare, come cavallette da una spiga all’altra, urlando a Narciso «Scappa! Fuggi! Fuggi via!».

Lauro si voltò un attimo e vide cadere a peso morto l’amico rimasto indietro. Correndo più forte di prima, col respiro sospeso, lo raggiunse e lo prese in braccio.

Mino ritornò verso la baracca, per prendere l’armonica e il tamburello, perché sapeva che la musica può guarire un tarantato.

Dal casale Leuca vide Lauro che correva verso di lei, mentre urlava «Tarantato! È stato tarantato!».

La serva rientrò dentro e distese un lenzuolo bianco, sul pavimento duro come la pietra, Mino raggiunse di corsa il casale, diede il tamburello a Lauro e si portò l’armonica alla bocca.

Iniziarono a suonare a un ritmo lento, moderato e poi veloce.

Le mani di Narciso picchiavano a terra, parevano essersi trasformate in ragno anch’esse, lì dove il palmo sembrava il corpo e le dita zampe d’aracnide.

Braccia e gambe si animarono, scomposte e slegate. Il giovane girava la testa a destra e sinistra, come posseduto da una forza incontrollata che rendeva il corpo invertebrato.

Lauro e Mino continuavano a suonare, mentre Leuca pregava, asciugandosi le lacrime con il grembiule:

«San Paolo, ti prego, ti prego! Pensaci tu, libera ‘sta creatura mia!».

Per Rodrigo, erano già due braccia in meno da sostituire, “Sti selvaggi che c’hanno da perdere” pensò, grattandosi la testa con un’espressione compiaciuta.

Lo schiamazzo svegliò la signora Dora, sentendo urlare il nome di Narciso, scese giù per le scale. Rodrigo le ordinò di tornare sopra, ma la madre continuava a fissare il giovane sofferente, «La musica non serve a niente» disse la vedova «c’è solo una cosa che può guarirlo».

«Cosa? Che cosa?» chiese Lauro, con una mano in aria per interrompere il suono.

«Ai piedi del monte sacro, non molto lontano dalla città, c’è un pozzo con un’acqua speciale, miracolosa. Si dice che chi beve quell’acqua possa guarire da ogni male».

Subito intervenne Rodrigo «E chi resta per lavorare nei campi? Loro non si muovono. Restano qui! Gli concedo una sola notte per guarire, altrimenti..» si sentiva solo il corpo di Narciso sbattere sul pavimento «..gli sparo in fronte a ‘sto morto di fame e sarete voi due a continuare tutto il lavoro».

Lauro sentì montare la rabbia, voleva uccidere il padrone a morsi e stava per scattare. Mino gli afferrò un braccio, era bollente. Gli occhi dolci del bambino riportarono lo zingaro alla realtà, si intesero subito: sarebbero partiti quella notte.

*

Oltrepassata la strada che divideva la campagna dalla città, Lauro con in braccio Narciso e Mino poco dietro, giunsero in una piazza. Al centro, in mezzo alle macerie delle case, sorgeva una chiesa maestosa, in pietra bianca, con strane creature scolpite sul cornicione. Provenivano dei suoni dalla porta laterale, i tre entrarono in punta di piedi.

I banchi erano occupati da uomini in giacca e donne vestite bene.

“Dove siamo?” pensò Mino, Lauro si girò come se avesse udito il suo pensiero e Narciso aprì gli occhi così lucidi che sembravano liquidi e fece intendere a Lauro che voleva scendere.

In fondo alla chiesa un prete, vestito di bianco opaco, teneva tra le mani un’ostia nel pieno del silenzio, mentre la gente nei banchi, che stava in ginocchio, cominciò a coprirsi il naso con la mano. Alcuni tossirono, altri ancora fecero per uscire.

Lauro e Mino rimasero al centro della chiesa, guardandosi intorno, mentre Narciso camminava verso l’altare. Dietro il prete, un altro uomo, con abito nero e colletto bianco, si alzò per andare incontro al giovane.

Un vocio soffuso s’innalzò dall’assemblea, sul viso delle persone si poteva leggere un’espressione di schifo e disprezzo: «Che odore!» – «Una puzza tremenda!» – «Che il Signore ce ne scampi, fateli uscire!» diceva qualcuno tra l’assemblea.

L’uomo vestito di nero prese in braccio Narciso e richiamò fuori gli altri due, con un cenno del capo. Lauro voleva prenderlo a pugni, ma si fermò quando l’uomo disse:

«Sono don Paolo, mi avete salvato da quegli ipocriti. Come posso aiutarvi?». Mino sorrise, mentre Lauro con sguardo diffidente chiese:

«Sai dov’è il monte sacro?».

Il prete fece una faccia curiosa, poi Lauro continuò:

«Il nostro amico è stato morso da un ragno, una taranta, dobbiamo raggiungere il pozzo prima che il veleno lo uccida». Il prete non credeva a queste cose, ma si fece spazio tra loro e indicò un palazzo bianco. Proprio di fronte la chiesa.

«Abbiamo bisogno di un dottore» disse don Paolo a un infermiere. Narciso zoppicava e, alle sue spalle, Lauro gli tendeva le braccia pronto a sostenerne il peso in caso di caduta.

Mino entrava e usciva dalle stanze, scambiando qualche parola con le persone ricoverate.

Poco dopo arrivò un dottore, sui quarant’anni, la riga dei capelli ben definita e nemmeno un filo di barba. Lauro cominciò a spiegare come era successo, in dialetto, mentre don Paolo accanto traduceva quei suoni incomprensibili. Seduto sul letto, Narciso si tolse la maglia bianca e il viso del dottore diventò pallido.

Don Paolo girò di colpo la testa mentre Lauro si mise una mano davanti alla bocca, ripetendosi di non vomitare. La schiena del ragazzo era costellata di piccole macchie, simili a bollicine rosse, e non c’era un pezzo di pelle che fosse ancora liscio e rosa.

«Sifilide» esclamò il dottore «Sifilide in terza fase», Lauro lo guardò con un gesto della mano come per dire “che significa?”. «È grave, molto grave. Ci dica la cura» disse don Paolo senza perdere tempo, rispondendo a quel gesto popolare.

Il dottore si mise una mano in testa, lo sguardo basso, e con l’altra indicò il crocifisso appeso al muro, «Solo un miracolo può salvare il ragazzo, la medicina non può. Almeno non ora» disse, con un’aria di rassegnazione.

Quella notte dormirono tutti in una stanza: il secondo letto fu occupato da Mino, la poltrona ad angolo da don Paolo e la sedia da Lauro che non chiuse occhio. Stava accarezzando la fronte di Narciso, quando aprì gli occhi. Era sudato e aveva la bocca secca, le labbra screpolate e gli occhi deboli.

«Il mare» sussurrò Narciso, ma Lauro non aveva sentito e gli tese l’orecchio più vicino.

«Voglio vedere il mare», la notte del falò Lauro aveva chiesto cosa volessero fare, dopo aver concluso il lavoro in campagna, e la risposta di Narciso arrivò solo ora.

Lauro prese in braccio l’amico, sentiva che il suo corpo tremava. Fece per andare verso l’uscita.

«Chiedi» disse una voce dietro di lui, «Non aver paura di chiedere aiuto», così don Paolo gli augurava buon viaggio, mentre sul letto accanto Mino dormiva beato.

*

Alle prime luci del mattino, Lauro arrivò ai piedi del monte sacro. Le braccia gli tremavano e le ossa iniziavano a scricchiolare,“Non c’è più tempo” pensò “dobbiamo andare al pozzo”.

Chinato a terra, respirava a fatica. Si mise in ginocchio, raddrizzò il busto e guardando il monte, così diceva: «Siamo soli Narciso, siamo sempre stati soli. Mio padre m’ha venduto al padrone per una mucca, per un po’ di latte, e mia madre se n’è andata con un altro uomo, un soldato che non sapeva una parola d’italiano. In chiesa quel prete parlava di un dio, ma chi è ‘sto Dio? Se esiste perché non ci è venuto a prendere, perché non ci ha salvati? Perché non fa morire me al posto tuo? Tu sei più buono di me, tu meriti di vivere. Una cosa però voglio chiederla a questo Dio, una cosa sola. Non c’ho mai creduto in Te, non T’ho mai visto, però ora dammi braccia potenti. Metti un po’ d’energia in ste braccia secche per portare in cima a ‘sto povero Cristo. Dammi la forza, ti prego».

Si nascose il viso tra le braccia e pianse, fino a non sentire più gli occhi. Narciso si alzò a fatica e abbracciò Lauro, accarezzò la schiena con una mano e con l’altra portò la testa dell’amico a sé, formando un solo corpo.

Lauro si alzò in piedi, facendo peso sulle gambe magre a terra, cominciò a camminare scalando il monte. Narciso poggiava la testa sul petto umido di Lauro, come se fosse il posto più sicuro al mondo. Quando raggiunsero il pozzo, lo zingaro aveva finito il fiato.

Si affacciò oltre il bordo e, calato il secchio, tirò il cordone furioso. Il secchio era vuoto. Lo rilanciò nel fondo del pozzo e ritornò vuoto.

“Dov’è quell’acqua miracolosa?” pensò Lauro, guardando le piante intorno, come se cercasse un ladro, un colpevole. Oltre il pozzo, lontano, notò una linea azzurra all’orizzonte e gli si avvicinò per vederla meglio. Non riuscì a credere ai suoi occhi.

«Il mare!» esclamò, così aiutò Narciso a sedersi mettendosi dietro per dargli stabilità. Lauro riguardò la schiena con disgusto, quelle bolle rosse gli ricordavano qualcosa o forse qualcuno. Sentiva crescere la nausea dentro di lui, mentre continuava a respirare.

Sgranò gli occhi e pensò “Malmignatta”, la vedova Dora.

Le bolle le aveva già viste sulle mani della vecchia signora, erano identiche per forma e colore. Provò a non pensare troppo, anche perché non era abituato a farlo, e si sentiva parecchio sfibrato per il viaggio. Era lui adesso che era pronto a morire, soddisfatto perché Narciso aveva realizzato il suo desiderio più grande. Restava un vuoto, però, tra ciò che aveva capito e ciò che voleva credere, ma non poteva farci niente e non c’era più tempo. Gli rimaneva solo da guardare il mare.

In Narrature

Il mio letto

di Danilo Grasso

La voce di mia madre che urlava di alzarmi era il primo suono di ogni mattina. La luce del sole mi metteva sempre di buon umore, anche quando dalle prime luci si intuiva che la giornata sarebbe stata livida e scialba.

         Riuscire ad alzarsi era sempre un problema: mangiavo qualcosa al volo e correvo in stazione.

Il treno era stracolmo e il numero di passeggeri cresceva ad ogni fermata. Trovai uno scompartimento vuoto, sistemai la valigia e mi sedetti. Pochi istanti dopo tutti i posti furono occupati. Mi alzai, chiesi di uscire.

          Mi guardavano: «Qui c’è la vita e fuori non esisti». Mi aveva detto qualcuno poco lontano. Provai a parlare, ma ognuno pensava alle proprie cose, come se nulla fosse. Faticavo a respirare, come in preda a un attacco di panico. Spintonando arrivai al finestrino e provai ad aprirlo: era bloccato. All’improvviso un uomo dallo sguardo serio: «Vuoi scendere?», mi disse. In quel momento il treno arrestò la corsa. Scesero tutti e finalmente ripresi fiato. Uscii dallo scompartimento. Sul treno e in stazione non c’era più nessuno.

         La calma durò poco. Alcuni uomini, sbucati dal nulla, salirono sul treno e mi aggredirono: un colpo alla testa e non vidi più nulla. Ripresi i sensi all’interno di una cella. Mi guardai intorno cercando una via di fuga e non ne trovai. Mi sentivo il cervello stretto in una specie di morsa.

        Rimasi ad osservare le pareti della cella e una forte fitta alla testa mi costrinse a chiudere gli occhi. Quando li riaprii mi ritrovai coperto con un lenzuolo fin sulle spalle. Mi guardai intorno e mi accorsi di essere nel mio letto. Aprii la porta di casa e riconobbi il mio quartiere, i volti dei miei vicini. E non capivo.

        Rientrai. Sulla scrivania c’erano fogli sparsi dappertutto. Cercai ovunque nella speranza di qualche risposta che spiegasse quel che avevo vissuto. Io avevo visto, avevo udito. Avevo anche toccato. Non trovai alcuna prova. Di mia madre neanche l’ombra.

         Fuori era già buio. Un’improvvisa stanchezza mi assalì. Il turbamento e l’ansia erano scomparsi. Mi distesi sul letto, rinviando tutto all’indomani. Credo di essermi addormentato in un sonno profondissimo.

         Al risveglio ero di nuovo nella cella e fuori c’erano delle guardie. Io le chiamavo; provai a chiamarle davvero forte ma non mi rispondevano. Anzi, mi guardavano con una fissità ottusa. Dopo alcune ore spensero le luci e mi ordinarono di dormire. Cercai di restare vigile, benché il sonno mi prendesse. Volevo ottenere delle risposte.

         A un tratto l’interno della mia cella si riempì di qualcosa che prendeva tutta l’aria: non respiravo. Mi coprivo la bocca e il naso con la maglia ma alla fine persi i sensi. Mi svegliai e un curioso presagio mi balenò in testa. Ero di nuovo nella mia camera: mi trovai di fronte al computer che era acceso chissà da quanto. Aprii la schermata principale. C’era una mail di Roberto. Lessi: «Caro Giovanni, questo è un libro strano e quel mio amico editore vuole parlarti». Era allegato un file. Lo scaricai e lo aprii. Aveva un titolo che non capivo: Il mio letto. Non lo capivo ma mi piaceva. Stavo bene. Poi il titolo del primo capitolo: In treno.

         E da qualche parte della casa la voce di mia madre urlava di alzarmi.