Categorie

La Seconda Repubblica delle Lettere

In La Seconda Repubblica delle Lettere

Settimana Pasolini – Pasolini pedagogo. Erotico e corsaro

di Annasara Bucci

Albe e crepuscoli si alternano lenti ed inesorabili sulla linea d’orizzonte della campagna friulana, colori e odori della madre terra percuotono dolcemente i sensi del giovane Pier Paolo: è sempre la prima luce a spegnere l’ultimo sonno, è così che si fa alba. Si fa alba sulle sue palpebre, sulla sua pelle di giovinetto e sulla vitalità del suo genio, ma è anche l’alba della sua primissima prova da insegnante.

Poco più che ventenne, Pier Paolo Pasolini viene chiamato “maestro” da alcuni ragazzetti sfollati a Versuta, piccolo villaggio nei dintorni di Casarsa; sfollato è egli stesso, nello stesso villaggio, nel 1944 a causa della guerra assieme alla madre Susanna, il cui contributo fu preziosissimo nell’allestimento di quella piccola scuoletta improvvisata tra i fiati dei campi nei pressi della loro abitazione.

Figlio di un ufficiale di fanteria e di una maestra di scuola, Pasolini è uomo di scuola sin dalla giovane età: dalla prima esperienza a Versuta, a Valvasone tra il 1947 e il 1949; infine, in una scuola media di Ciampino nel 1954.

Sfaccettatura inedita, quella della pratica pedagogica pasoliniana, che restituisce il profilo di un pedagogo a tutto tondo mosso da una divorante ansia didattica che si manifesta prestissimo e che non potrà che vibrare nella sua vita e nella sua intera opera, dal momento che l’intero corpus dei suoi scritti è incarnazione estetica della passione vissuta, costantemente vigilata da un’istanza meditativa e riflessiva che rimarrà sempre recisa ma commista al movimento passionale.

Pasolini, dice Zanzotto, non faceva altro che «accrescere la libertà comune, da ottimo pedagogista qual era» (Zanzotto, 1977), ed era proprio questa l’atmosfera che si respirava nella piccola scuola di Versuta che ancora Zanzotto definisce «agape, filìa, eros».

E dal concetto di eros bisogna partire quando si parla di Pasolini: corpo in mezzo ai corpi.

In prima istanza, l’impegno pedagogico di Pasolini nasce da un amore profondo per l’alterità. Lo studio della lingua friulana ne costituisce il momento aurorale e la scoperta del mondo linguistico in tutte le sue componenti converge con l’indagine sui ‘contenitori’ stessi di quella lingua: le menti e i corpi.

Il corpo è per il poeta un dato fenomenologico, un archivio che conserva la memoria delle cose e delle forze da cui è stato plasmato:

L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica […] rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito. La condizione sociale si riconosce nella carne di un individuo perché egli è stato fisicamente plasmato dall’educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo. (Pasolini, 1976)

Il punto è che Pasolini amava quei corpi di ragazzi. Per quanto la sua omosessualità sia stata un dato sconveniente, che si sia tentato di rimuovere o che sia stato strumentalizzato a fini scandalistici, esso rimane pur sempre il primo motore erotico di quella spinta pedagogica.

Al di là di ogni banale generalizzazione che incastoni il discorso in una inutile deriva pederasta, lo sguardo del maestro Pasolini accarezza il corpo di quei ragazzi con amore e per amore. Ne ama la purezza primordiale naturalmente collegata ad una precisa idea di gioventù rivoluzionaria e non sopporta che quest’idea venga tradita, a giudicare dalla durezza con cui si scaglia contro i giovani di Valle Giulia che si modellano ribelli piccolo-borghesi, incarnando perfettamente le prerogative socio-culturali dei padri anziché rimanere fedeli a quell’ideale di gioventù. Il Pasolini innamorato dei giovani non ha paura di scagliarsi anche contro di loro, se nota il deturpamento di quell’idea primigenia.

Il traslato in materia pedagogica di questo puro dato d’amore, che diventa dato di fatto, consiste in ciò: non esiste atto educativo che escluda la necessità di un discorso d’amore verso l’oggetto educabile nella sua unicità. Non esiste relazione educativa senza corpo, giacché il primissimo atto dell’insegnante è quello di stare fisicamente dinanzi al corpo dello studente in un dato tempo e in un dato luogo.

L’importanza della fisicità è il primo degli insegnamenti che Pasolini restituisce alla pedagogia odierna dove luoghi, tempi e corpi hanno subito trasmigrazione virtuale, innanzitutto le aule, queste entità astratte, vestite da non-luoghi.

Viene spontaneo chiedersi quale sarebbe stato il suo giudizio sulla didattica odierna se – in tempi non sospetti – egli stesso anelava ad una scuola “senza feticci”, dove il ricorso al corpo è il mezzo del dono educativo per una lezione impostata su quelle che oggi definiamo metodologie di didattica “attiva”, in linea con la sua naturale propensione sperimentale.

Lo ritroviamo infatti in aula nelle vesti di attore e lettore recitante di prosa e poesia, con il preciso intento di ‘drammatizzare’ la lezione:

Io, con un’astuzia calcolata, ma tutt’altro che fredda, sottolineavo i particolari insignificanti, lasciavo cadere nel vuoto di una stupefacente indifferenza i dati essenziali, giocavo con la loro attenzione […] insomma, davo alle mie lezioni una specie di drammaticità. (Pasolini, 1954)

Se, da un lato, il chiaro obiettivo del metodo era quello di tenere alta l’attenzione dello studente, dall’altro c’è un Pasolini che palpa sensibilmente la pericolosità di una impostazione didattica inquinata dal puro nozionismo: ha bisogno di formare coscienze cha abitino quei futuri corpi di adulti, non di lasciarli marcire nei loro involucri.

Per formare coscienze c’è bisogno di una riflessione sulla lingua che includa di certo l’esempio letterario del passato, ma che non trascuri gli esempi del presente storico: non soltanto Dante, Boccaccio, Petrarca, Manzoni, Leopardi, ma (in piena polemica contro le selezioni antologiche ormai vetuste dei libri di testo) anche Quasimodo, Penna, Saba, Montale ed altre delle voci più autorevoli del Novecento letterario italiano.

Non importa che si stia parlando dei ragazzi di Versuta o di Ciampino, che la lezione si svolga tra l’odore dell’erba pestata di un campo o quello del gesso di un’aula attrezzata, il maestro ha bene in mente che l’allievo deve riflettere sul presente storico per essere cosciente del suo hic et nunc e, per far ciò, deve spingerlo ‘dentro’ le parole dell’immediato presente, fargliene sentire rumori, silenzi, frammentazioni e brutture di un’epoca segnata dalla perdita del senso.

«Le parole sono importanti!», gridava un Moretti disperatissimo da dietro lo schermo, quelle parole che Pasolini sentiva frantumarsi nel linguaggio corrente a causa della spinta dei mezzi di comunicazione e dell’azione socio-culturale del consumismo.

In uno scenario culturale che virava verso la massificazione, gli sforzi del maestro Pasolini erano finalizzati a non permettere alla scuola di implodere, così come porrà successivamente il problema della formazione di modelli qualitativamente affidabili, elevati a guide socratiche in grado di contrastare le crisi delle autorevolezze e ai quali affidare la missione educativa: missione da portare avanti per amore, non per convenzione.

Un giorno, in giardino, durante la ricreazione, gli feci una domanda del tutto inattesa. Gli chiesi in maniera farfugliata cosa avrei dovuto fare per non trovarmi tanto male nella vita. Lui, dopo aver aggrottato un attimo le sopracciglia, si lasciò sfuggire un sorriso un po’ disarmato e un po’ tenero. Ci pensò qualche secondo e mi disse letteralmente: «Basta che non fai quello che fanno tutti!» (Cerami, 2002)

Bibliografia di riferimento:

  • Saggi contenuti nel volume: Pasolini e la pedagogia, Quaderno n° 5 del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, a cura di Roberto Carnero e Angela Felice, Marsilio, 2015.
  • A. Zanzotto, Pedagogia in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano, 1994.
  • Testimonianza della conversazione tra l’allievo V. Cerami e il maestro Pasolini contenuta in: Vincenzo Cerami, Pensieri così, Garzanti, Milano, 2002.
  • P.P. Pasolini, Diario di un insegnante in Id. Un paese di temporali e di primule, Guanda, Milano, 2019.
In Interlinee/ La Seconda Repubblica delle Lettere

Perché i vitelli vanno giù con le gambe davanti? Legittimità, necessità e una nuova traduzione di “La pesanteur et la grâce” di Simone Weil.

di Andrea Veglio

Supponete di essere laureati in Fisica teorica e di aver fatto una tesi di dottorato sulle simmetrie in alcuni fenomeni naturali, poi supponete di esservi interessati al rapporto fra meccanica statistica e la funzione ζ di Riemann e di esservi giocoforza trovati di fronte all’immenso lavoro di uno dei maggiori matematici del ‘900, André Weil. Supponete di esservi incuriositi alla sua vita e di avere molto apprezzato alcune lettere scambiate con la sorella Simone (L’arte della matematica, Adelphi). Supponete a questo punto di aver voluto approfondire la biografia e il pensiero di Simone Weil, – anarchica, filosofa, mistica. Supponete, una volta finito di leggere La pesanteur et la grâce – raccolta di riflessioni scritte fra 1940 e il 1942 e pubblicata postuma in Francia nel 1947, – di aver compreso con chiarezza di esservi innamorati del libro e dell’autrice. Un’autrice, tanto per dire, che Albert Camus definì “il solo grande spirito del nostro tempo”. Supponete di esservi procurati la bella e autorevole versione italiana di La pesanteur et la grâce, tradotta da Franco Fortini nel 1951, ma di aver avuto la sensazione che di tanto in tanto non trasmettesse quella sorta di delicata ferocia che avevate sentito rimbombare nell’originale.

Supponete inoltre che siano trascorsi più di settanta anni dalla morte dell’autrice e che le sue opere siano di dominio pubblico. Supponete infine di padroneggiare bene il francese, ma che il vostro sia un francese bastardo e popolare, imparato nei laboratori di un istituto di ricerca di Parigi e nelle taverne di Nizza, non propriamente quello che si insegna nelle aule universitarie dissezionando i libri di Proust o Céline.

Supponete tutto ciò e ditemi, che cosa avreste fatto al mio posto? Per quanto mi riguarda – dati tutti  questi presupposti – probabilmente non avrei fatto nulla. Al massimo avrei scritto un paio di righe su Facebook per consigliare la lettura, possibilmente in lingua originale, di La pesanteur et la grâce, magari lamentando il fatto che l’unica traduzione italiana esistesse solo – maledetto immobilismo della nostra editoria – in versione cartacea. L’idea – contemplata per un istante – di scriverne una nuova traduzione e di autoprodurla in versione elettronica l’avrei rubricata come temeraria e archiviata nella popolosa categoria mentale del non legittimato all’impresa. A chi mi avesse fatto notare che Primo Levi – con la sua laurea in chimica e il suo tedesco “da caserma” – aveva tradotto Il processo di Kafka, avrei obiettato un laconico e inoppugnabile “Primo Levi è Primo Levi”.

Se non avessi ricevuto una telefonata di cui dirò più avanti, una telefonata in cui si parlò principalmente dello stato di salute di alcuni vitelli, non mi sarei reso conto di come questo progetto di traduzione sottendesse al contrario un principio di necessità (termine tanto caro alla Weil) cui non potevo sottrarmi.

Un po’ come se tutti i presupposti elencati sopra costituissero un insieme di ipotesi contraddittorie che impediscono di arrivare alla dimostrazione di un teorema e quella telefonata, eliminando (in gergo matematico, rilassando) una delle ipotesi, avesse risolto la contraddizione e lasciato emergere la necessità della tesi. (In matematica, se un insieme di ipotesi P implica una tesi Q, si dice che Q è necessaria a P).

A questo punto permettetemi però di abbandonare il linguaggio matematico in modo da poterci addentrare un minimo nel merito della traduzione.

In primis, il problema del titolo.

Franco Fortini ebbe l’audacia di intitolare  L’ombra e la grazia la propria versione, motivando così la scelta: “Quando tradussi questo libro, pubblicato in italiano nel 1951, fui a lungo perplesso per la resa del titolo. In italiano, la pesantezza pesa più della pesanteur; è semmai gravezza, lourdeur. Sarebbe stato meglio Il peso e la grazia? Certo è un peso di origine greca, più che il pondo o la soma dell’italiano letterario. Somiglia a quello che pende nel memorabile inizio di La persuasione e la retorica di Michelstaedter. Ombra, senza dubbio, tradisce la corporeità del sostantivo; spiritualizza, disincarna, è poeticistico. Ma è anche associato al contrasto luce-buio, rivelazione-tenebra. L’ombra è un portato della carne, dice Dante”.

Come intitolare la nuova traduzione?

Mantenere L’ombra e la grazia? Modificare il titolo di un’opera a settant’anni dalla prima pubblicazione non significherebbe snaturarla? Ad esempio, una nuova traduzione di Of mice and men che si intitolasse Di topi e uomini porrebbe più di qualche problema (e infatti la nuova versione di Mari mantiene il titolo di Pavese). D’altro canto, però, La montagna incantata di Mann, tradotta nei Meridiani, è diventata La montagna magica.

Legittimo quindi abbandonare il “poeticistico” ombra per rimanere fedeli alla “corporeità del sostantivo”, magari scegliendo un letterale La pesantezza e la grazia? Oppure meglio optare per un più fisico Il peso e la grazia? Gli anglosassoni accentuano ulteriormente la fisicità del termine e traducono Gravity and grace, infischiandosene peraltro della poco simpatica allitterazione gr-gr. (Strada difficilmente percorribile in italiano: La gravità e la grazia risulterebbe quantomeno ambiguo, La grevità e la grazia terribile). Inoltre, nel panorama letterario italiano è presente dal 2012 un romanzo di Christian Raimo il cui titolo, Il peso della grazia, “di una celebre dicotomia di Simone Weil, […] fa un’endiadi” (Andrea Cortellessa, La Stampa). Ma un romanzo è un’opera creativa che non soggiace ai vincoli filologici che devono invece essere rispettati dalla traduzione di un classico. 

Dopo essermi a lungo chiesto quale potesse essere la scelta migliore (un grazie sincero a coloro che mi hanno ascoltato e consigliato), mi sono infine deciso per La pesantezza e la grazia, titolo certo non bello, ma coerente con la resa di pesanteur con pesantezza cui sempre mi sono attenuto nel testo (come Fortini, d’altra parte).

A differenza di pesanteur, c’è stato un sostantivo piuttosto rilevante – con le sue settanta e più occorrenze (derivati compresi) – che non ho potuto rendere sempre con il medesimo traducente. Si tratta di malheur, che in italiano può significare, semplificando, sia infelicità che sventura. Nella scelta di tradurlo con l’uno o con l’altro termine si pone necessariamente l’accento su una dimensione interiore o esteriore. Esiste forse un sostantivo italiano che raccoglie entrambe le accezioni, afflizione, ma appartiene a un registro così distante da quello di malheur che ho preferito evitarlo. A ogni occorrenza di malheur ho quindi dovuto fare una scelta, dolorosa, fra infelicità e sventura (e non disgrazia, perché malheur non è inteso da Simone Weil come assenza di grazia, dis-grazia). A differenza di Fortini, che traduce malheur prevalentemente con infelicità (43 volte contro le 29 di sventura), nella mia versione ho privilegiato sventura (53 volte contro le 19 di infelicità), perché mi è sembrato più aderente ai vari contesti proposti dall’autrice – un’autrice che rifugge qualsiasi concessione intimista o esistenzialista.

Un’autrice, peraltro, che ha un’idea severamente occamistica tanto dello scrivere (il suo è uno stile diretto e asciutto, che mira all’essenziale) quanto del tradurre, al punto che ebbe a dichiarare: “Il vero modo di scrivere è scrivere come si traduce. Quando si traduce un testo scritto in una lingua straniera, non si cerca di fargli delle aggiunte: si usa al contrario uno scrupolo religioso per nulla aggiungere. È così che bisogna cercare di tradurre un testo non scritto”.

Ho quindi cercato di attenermi il più possibile a questo principio, senza però cedere alla tentazione di una resa pigramente letterale, così da rispettare in ogni passo sia l’autrice che il lettore contemporaneo.

Ad esempio, la Weil indica il Dio degli Ebrei con il nome di Geova, nome che Fortini mantiene invariato nella propria versione. Scelta ineccepibile, dal momento che Fortini si rivolge al pubblico dell’immediato dopoguerra, quando i Testimoni di Geova – silenziosamente perseguitati dal regime fascista a partire dalla fine degli anni ’20 – erano in Italia una piccola minoranza poco conosciuta ai più. Il lettore del 2021, al contrario, associa immediatamente la parola Geova al Dio di quella religione. Ho quindi preferito tradurre Geova con il termine Yahweh che, oltre a mantenere una certa coerenza lessicale (Geova non è altro che una latinizzazione di Yahweh), rimanda subito l’attenzione del lettore contemporaneo al contesto della religione ebraica.

Una religione, quella ebraica, con cui la Weil ebbe fin da piccola un rapporto quantomeno dialettico (ad esempio sostenne di aver scoperto di essere ebrea soltanto all’età undici anni). Molto si è scritto – anche a sproposito – sul rapporto di Simone Weil con l’ebraismo, e non ritengo sia questa la sede per tentare una nuova analisi. Mi limito a riportare un fatto singolare che ho riscontrato durante la traduzione. Nel capitolo intitolato Israël (Israele), uno dei più difficili da apprezzare in un’epoca come la nostra in cui si ha piena consapevolezza della tragedia della Shoah, l’autrice (che, per la cronaca, morì nel ’43 a Londra dopo aver lasciato gli Stati Uniti nella speranza di potersi paracadutare in Francia per unirsi alla resistenza e combattere i nazifascisti) scrive: “La malédiction d’Israël pèse sur la chrétienté. Les atrocités, l’Inquisition, les exterminations d’hérétiques et d’infidèles, c’était Israël. Le capitalisme, c’était Israël, notamment chez ses pires ennemis.” Queste le parole che appaiono nell’edizione che ho utilizzato dapprima per la lettura e poi per la traduzione del testo originale, La pesanteur et la grâce, Pocket (© 1947 e 1988 Librairie Plon). Parole che coincidono esattamente (com’è normale che sia, del resto) con quelle riportate nel testo a fronte della traduzione di Franco Fortini, L’ombra e la grazia, Bompiani (© 2017 Giunti Editore).

La mia traduzione recita: “La maledizione di Israele grava sulla cristianità. Le atrocità, l’Inquisizione, lo sterminio di eretici e di infedeli, questo era Israele. Il capitalismo, questo era Israele, specialmente fra i suoi peggiori nemici.”

Sorprendentemente, Fortini traduce: “La maledizione di Israele pesa sulla cristianità. Le atrocità, l’Inquisizione, gli stermini di eretici e di infedeli, erano Israele. Il capitalismo, era Israele (lo è ancora, in una certa misura…). Il totalitarismo è Israele, soprattutto nei suoi peggiori nemici.”

Più che una traduzione, sembra un’interpolazione con la bieca aggiunta di una dozzina di parole, peraltro parole che nella travagliata cartografia dell’immediato dopoguerra dovevano avere un certo rilievo.

La mia ipotesi è che Fortini, sempre così preciso, sempre così attento a trovare soluzioni stilistiche oggi forse datate ma di incontrovertibile correttezza, non abbia aggiunto di propria sponte quelle parole (perché avrebbe dovuto?). Sospetto piuttosto che il testo originale su cui Fortini lavorò includesse quelle parole che poi, chissà per quale errore o convinzione, sono state omesse nelle successive edizioni in lingua francese, e di riflesso nell’attuale testo a fronte dell’edizione Bompiani. Ma questa appunto è solo una mia ipotesi, da non letterato.

E da non letterato difficilmente avrei ritenuto legittimo avventurarmi in una nuova traduzione di La pesanteur et la grâce se la scorsa primavera, mentre leggevo la versione di Fortini, non avessi ricevuto una telefonata da mio padre, zootecnico, che mi comunicava, pour parler, di aver visitato un allevamento di bovini in cui alcuni capi “andavano giù con le gambe davanti”. Deforme madeleine proustiana, quell’espressione che non sentivo da decenni, più che rimandarmi alla pesanteur descritta dalla Weil, mi riportò in mente un episodio della mia infanzia, quando mio padre si assentò da casa alcuni giorni per seguire un corso di formazione per zootecnici. Al termine di una conferenza su patologie animali e alimentazione, nello spazio riservato agli interventi del pubblico, mio padre avrebbe voluto porre una domanda che gli era rimbalzata in testa per tutta la lezione, “perché i vitelli vanno giù con le gambe davanti”. Ma non lo fece. Lui, con la sua licenzia media, non osò porre quella domanda del tutto appropriata ai professori universitari che tenevano la conferenza in quanto – raccontò una volta rincasato – l’unico modo in cui avrebbe saputo formularla, “perché i vitelli vanno giù con le gambe davanti”, lo avrebbe fatto sentire ridicolo. Scoraggiato dal linguaggio pieno di latinismi e tecnicamente ineccepibile dei relatori, non si era sentito legittimato a interloquire con loro. Sbagliando, credo.

Un errore che ho cercato di non commettere.

Nel particolare momento della mia vita in cui sono approdato a  La pesanteur et la grâce (momento che ha coinciso con il periodo della Pasqua 2021 e il relativo lockdown), la telefonata di mio padre ha eliminato il presupposto (rilassato l’ipotesi, in gergo matematico) della non legittimazione, facendomi percepire chiara la necessità di superare le mie paure e di mettermi a tradurre.  Alla necessità, secondo Simone Weil, bisogna “accettare di essere sottomessi […] e non agire se non attraverso di essa.” A quella necessità sono grato, in quanto mi ha consentito di dare, spero, un piccolo ma concreto contributo nel mantenere viva e contemporanea – anche grazie al mezzo elettronico – la voce di un testo e di un’autrice che tanto amo.

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

A David Foster Wallace (ovvero un tributo evidentemente e spudoratamente ispirato allo stile del grande autore americano, ma anche una riflessione su “Infinite Jest”)

di Andrea Micalone

Ci sono David Foster Wallace, Karen Green, Zadie Smith e Jonathan Franzen (forse anche Nathan Englander e Jeffrey Eugenides, ma non ne sono certo) in un salone caldissimo di Capri. Tutti gli occhi puntati su un televisore. È il 95° di Italia-Australia, Mondiali 2006, e Totti sta per battere il rigore decisivo che porterà la nazionale ai quarti di finale. Come ricorderete tutti, niente cucchiai stavolta: un tiro deciso, ed è goal.

E questi quattro (forse più) numi della letteratura, lì, esplodono in un applauso di gioia (stanno tifando davvero? Non lo so. Forse imitano solo gli italiani presenti).

No, non si tratta dell’incipit di un qualche improbabile romanzo postmoderno in salsa partenopea. È accaduto davvero. Era il 26 giugno 2006, vale a dire esattamente quindici anni fa, si giocava appunto un altro ottavo decisivo per la storia della nostra nazionale, e D.F.W. per la prima e unica volta nella sua vita si trovava in Italia (sarebbe rimasto sino al 2 luglio, e poté vedere perciò anche Italia-Ucraina). A detta di Antonio Monda[1] fu Franzen a convincere l’amico, notoriamente spaventato dai viaggi in aereo, ad andare sino a Capri per parlare di letteratura. E, se ancora non doveste credere alla storia della partita, trovate il video di quell’esatto momento su YouTube, qui: https://youtu.be/UI2UnmEWfrw , e per esattezza intorno al minuto 7:05. Si scorge con chiarezza Zadie Smith, D.F.W. e la moglie Karen sono sicuramente tra i presenti, e il rapido spostamento dell’inquadratura permette di rintracciare Franzen per qualche attimo.

Sarei voluto essere lì?

Ovviamente.

Chi non lo avrebbe voluto?

Ma non potevo esserci (nel mio caso, allora avevo 15 anni, ed ero appena impattato in Pascal e Dostoevskij; mi mancavano ancora troppe letture per conoscere Wallace e gli altri).

Ora, però, questo mi è parso il periodo perfetto per rievocare quegli improbabili e assurdi momenti trascorsi da D.F.W. in Italia. E, soprattutto, ho pensato di cogliere l’occasione per scrivere alcune cose che mi premono da ormai troppo tempo su una “certa opera” di Wallace.

Sperando perciò di non apparirvi troppo presuntuoso[2], lascerò qui solo un brevissimo pensiero (o un giochino letterario, se così possiamo chiamarlo).

Partiamo allora da questo: D.F.W. ritengo sia stato uno dei più grandi autori del secondo Novecento-primi Duemila[3]. In molti, invece, lo ritengono troppo difficile, troppo ossessionato dal quel modo di scrivere alla “guarda, mamma, senza mani!”, e anche troppo prolisso, con quelle note infinite che spezzettano i suoi testi in continuazione.

A me[4], invece, piace.


[1]Trovate il racconto dettagliato di quei giorni in questo articolo: https://napoli.repubblica.it/dettaglio/wallace-alla-prova-del-polpo-lo-scrittore-a-capri/1514334 .

[2]E volendo, anzi, evitare di esserlo in ogni modo. Ci tengo molto a questo.

Mi rendo conto che con un articolo del genere sarà comunque inevitabile apparire un po’ presuntuosetti, ma confido che il mio prenderne atto diminuisca parzialmente questa sensazione ai vostri occhi.

Inoltre, per ridurre ulteriormente la mia presunzione, colgo subito l’occasione per ringraziare alcune persone che sono state determinanti nella stesura di questo articolo-tributo-obbrobrio: e quindi grazie a Edoardo Nesi (traduttore del romanzo “Infinite Jest” dell’Edizione Einaudi in mio possesso) per avermi indicato alcuni link che mi sono risultati assai utili, grazie a Martina Testa per avermi dato il contatto di Matt Bucher, grazie a Matt Bucher per gli ottimi saggi che mi ha segnalato (trovate il tutto più giù), e infine, ultimi ma primi (per me), grazie a Sarah Shwaiki e Alessio Susi per avermi sostenuto con le loro traduzioni dell’inglese, lingua con cui ho un rapporto conflittuale.

[3]Non dico “il più grande” soltanto perché non ho letto tutti gli autori degli ultimi cinquant’anni. Ho dei limiti umani. Sono, però, assai tentato di dire lo stesso “il più grande”.

[4]Lo annovero tra i tre grandi scrittori che mi hanno cambiato la vita: Pascal [pur essendo lui profondamente cristiano e credente, attivò in me, a 15 anni, tutte quelle accese e pressanti riflessioni che, ironicamente, mi hanno poi condotto a un ateismo problematico], Dostoevskij [sempre a 15 anni, mi fece invece comprendere che anche io sono un potenziale assassino. Ciò è accaduto quando, seguendo le vicissitudini di Raskol’nikov, ho pensato che il personaggio fosse costretto ad ammazzare le due donne, e l’ho pensato (questo è il punto focale della mia epifania) prima che Raskol’nikov lo facesse per davvero (se mi fossi trovato, nella realtà, al suo posto, credo che avrei agito anche in modo più efferato). E se “Delitto e Castigo” non ha fatto lo stesso effetto su di voi, allora ho paura di voi: ciò vuol dire, infatti, che non siete coscienti di essere potenzialmente pericolosi, e ciò vi rende estremamente pericolosi] e (appunto) D.F.W [che mi ha sconvolto molto più tardi: intorno ai 25 anni.

Nell’istante in cui conclusi la prima lettura di “Infinite Jest” compresi infatti che avevo tra le mani il libro di un genio.

Sin da quando lo terminai quella prima volta, però, mi parve anche lampante una chiave di lettura dell’intero romanzo che, nonostante la sua “ovvietà” (per me), non ho mai ritrovato altrove, espressa da qualcun altro (o, quantomeno, non nei miei stessi termini; in una nota successiva riporto comunque i saggi che hanno visioni più vicine alle mie). Non posso però escludere categoricamente, come ovvio, che la mia “chiave di lettura” sia già stata affrontata e sviscerata altrove (e che mi sia semplicemente sfuggito il saggio che la affronta). Se dunque qualcuno fosse informato meglio di me al riguardo, e se questa “chiave” è roba vecchia, nota e arcinota agli esperti, sarei ben contento se quel qualcuno me lo facesse sapere. Quantomeno mi sentirei così un po’ meno solo nelle mie riflessioni (leggasi: pippe mentali).

Ma, nel dubbio, ecco a voi la “chiave di lettura” a me parsa lampante.

Innanzitutto partiamo da un facile presupposto: “Infinite Jest” si intitola “Infinite Jest”. Come noto, è questa una citazione tratta dall’Amleto di Shakespeare, traducibile all’incirca come “scherzo infinito”.

Ecco: qui, nel titolo, io credo ci sia già tutto.

Ma procediamo con calma. Quando si affronta questo romanzone di migliaia di pagine, non si riesce a comprendere subito dove l’autore (D.F.W.) voglia andare a parare. C’è un primo capitolo che si svolge molto tempo dopo l’intera vicenda, e il lettore lo affronta totalmente confuso, non capendoci, in pratica, nulla (immedesimandosi così nelle condizioni del povero Hal).

Poi, quando si entra nel vivo, le cose non vanno molto meglio. Ci sono infinite linee narrative, ma tutte rimangono sospese nel finale. Proprio nelle ultime pagine, infatti, quando sembra che debba verificarsi qualcosa di fondamentale, la storia si conclude. Senza alcuna spiegazione.

Ma…

Ma se a questo punto rileggeremo il primo capitolo, quello ambientato molto tempo dopo l’intera vicenda, ecco: BAM! L’illuminazione!

Nel primo capitolo (che tutti, noi lettori di “Infinite Jest”, abbiamo letto quando non sapevamo ancora nulla della storia, lo ripeto) ci vengono raccontate già le conclusioni degli snodi narrativi. Semplicemente, non le comprendiamo perché ci restano oltre 1200 pagine da leggere. Ma, lo ripeto per l’ennesima volta, se questo primo capitolo lo si legge dopo l’ultimo capitolo, si trasforma invece in un perfetto(?) epilogo.

Ma un epilogo di cosa?

Della storia vera e propria: ovvio.

Quale storia?

D.F.W. stesso, in un’intervista*, rivelò che nel testo lui aveva fornito ai lettori tutti gli indizi per ricostruire le parti mancanti (ma tra il dire e il fare…).

Fate attenzione adesso. L’intero romanzo è, in effetti, una lunghissima preparazione (un antefatto) alla vicenda vera e propria, e si conclude quando le cose stanno per iniziare. Il primo capitolo, invece, è l’epilogo, successivo a quando il tutto si è concluso.

E quindi?

Nel mezzo cosa c’è? Qual è la storia che viene delineata, accennata, promessa, premessa e conclusa, ma mai realmente narrata? Insomma, “Infinite Jest” è il lunghissimo prologo e l’epilogo di quale vicenda?

Vi do qualche indizio?

In esso, non troviamo forse un padre, morto in circostanze misteriose, che governava su un piccolo regno? E la madre non convive forse con lo zio del protagonista (non il fratello del padre, bensì il fratellastro della madre, ma ci siamo capiti)? Zio che, così facendo, ha preso proprio il controllo di questo regno? E siamo davvero sicuri che il padre del protagonista sia morto nella maniera in cui tutti dicono (se leggiamo con attenzione, scopriamo sempre nel primo capitolo, “l’epilogo”, e per precisione a pag.20 – mi baso sull’Edizione 2016 Einaudi, tradotta da Edoardo Nesi – che Hal e Donald Gately riesumano alla “fine di tutto” la testa di James Orin Incandenza, e dunque diventa evidente che la Cicogna Matta non può essersi suicidata nel modo in cui tutti ricordano; non può, difatti, essersi fatta esplodere la testa nel microonde, se poi quella testa è ancora esistente**; e, domanda conseguente, cosa è esploso allora nel microonde? Possiamo supporre un pollo, o qualcosa di simile, il che spiegherebbe alla perfezione il “profumino delizioso” che avverte Hal nel momento in cui ritrova il corpo del padre, e che gli mette una gran fame, scatenando in lui poderosi sensi di colpa; e il ritrovamento del cranio di Lui in Persona è ribadito anche nel sogno premonitorio di Don Gately, a pag. 1122 – Ed. 2016 Einaudi – in cui, si aggiunge, che proprio in esso, cioè nel cranio, è stato nascosto qualcosa di fondamentale per un’emergenza continentale: quasi sicuramente la Copia Master dell’Intrattenimento, però già trafugata; certo: è anche vero che i poteri di James Incandenza in forma di spettro sono molto vasti, – grazie forse anche all’aiuto di Lyle – dato che James parrebbe capace di inchiodare di notte un letto sul soffitto senza che nessun occupante della stanza se ne accorga, e questo potrebbe voler dire che non ci sia stato un vero assassinio, ma che sia stata la Cicogna Triste stessa a mettere in piedi un assassinio-suicidio del proprio corpo, tramite i poteri preternaturali acquisiti)? E il protagonista non è forse il figlio di quel padre, e perciò potenziale successore a capo del regno, il cui ruolo è stato momentaneamente preso dallo zio (dato che Orin, il Primogenito, è andato via, mentre Mario, essendo figlio di Tavis, non ha diritti sul “trono”)? E, alla fine, il padre morto in circostanze non del tutto normali, per non ridire misteriose, non appare appunto in forma di spettro (non direttamente al figlio, ma non dobbiamo neppure dimenticare che questa è una riscrittura moderna, e perciò Hal, razionale com’è, non crede certo nei fantasmi; a dire il vero, vede un volto nella propria stanza, di notte, ma lo respinge come un sogno orribile; è dunque realistico pensare che lo spettro del padre debba cercare di rivelarglisi per mezzo di altri, meno scettici di lui; ed è altrettanto vero che nell’Amleto i primi a vedere lo spettro del Re sono Francesco, Marcello, Bernardo e Orazio, e forse Ortho Stice “Il Tenebra”, Pemulis, Don Gately – che, però, potrebbe anche impersonare Laerte, data la sua particolare vicinanza a Joelle, e alle strane parole “in sogno” che lo spettro gli rivolge e che Gately non riconosce come proprie – e un quarto a scelta tra i compagni di Hal sono la loro trasposizione moderna)? E Povero Tony Krause non ricorda nel nome, e in un certo senso anche nella sua buffa presenza e nel suo destino drammatico, il Povero Yorick? E, ancora, Joelle Van Dyne-Madame Psychosis, nel suo strano amore per Orin e nella sua follia, non ci ricorda una certa Ofelia (su questo punto, non dimentichiamoci della curiosa vicinanza tra lei e Don Gately – possibile Laerte, come dicevo in precedenza, e perciò possibile trasposizione teorica del fratello di lei – e non dimentichiamo neppure che in un sogno Don Gately la sovrappone alla vecchia signora Wayte, morta suicida; e, del resto, la stessa Joelle è in odore di suicidio)? E mentre avviene tutto quel che sappiamo, non è in corso una guerra per uno spicchio irrisorio di terra, che coinvolge tutti i personaggi, pur rimanendo una problematica “secondaria” (ONAN, DuPlessis e ANTI-ONAN, Les Assassins des Fauteuils Rollents eccetera eccetera, che quindi corrisponderebbero al regno danese, Fortebraccio padre, Fortebraccio figlio eccetera eccetera)? E Hal in persona, a pag.1080 – Ed. 2016 Einaudi -, non si domanda se Amleto in fondo non finga di fingere, e non sia invece pazzo per davvero (come avverrà appunto ad Hal stesso, a giudicare dal primo capitolo)?

E, come ulteriore elemento (se già tutto questo non vi bastasse), ci stiamo forse dimenticando come si intitola il romanzo e da quale opera siano state riprese quelle due parole: “Infinite Jest”?

Ormai, se mi avete seguito, avrete anche capito a cosa alludo.

La mia “chiave di lettura”, che è in realtà una domanda o una proposta, è: il romanzo di D.F.W. non è forse un enorme contorno dell’Amleto? Non una “semplice” riscrittura dell’opera shakespeariana (come è già stato supposto spesso – rivedi note), dunque, ma solo il suo “confine”, simile al frattale di Sierpinski (paragone non casuale, caro a Wallace: si veda al riguardo l’intervista fattagli da Michael Silverblatt, Bookworm 1996), che ha appunto perimetro infinito e area nulla? E che insomma il romanzo non riscrive davvero l’opera in sé, ma ne crea una cornice di dimensioni colossali, che gira e rigira sulla vicenda, come un maelstrom, ma che poi non arriva mai al vero punto della vicenda stessa? E, al contempo, grazie alle sue innumerevoli voci e storie che si accavallano, non è in realtà anche la “Storia dei Figuranti di Amleto”, cioè di tutti coloro che di solito, in una narrazione standard, rimangono sullo sfondo, e che qui invece vengono in prima linea e si confondono costantemente con i protagonisti (proprio come sognava di fare lo spettro James Incandenza nei suoi film, e come spiega bene nelle pagine 1003-1004 – Ed. 2016 Einaudi)? Non è, in conclusione, uno “scherzo infinito” che è sempre lì lì, sul punto di riraccontarci l’Amleto, pronto per rimostrarcelo in una chiave moderna, ma che poi, sul più bello, lascia tutto alla nostra immaginazione?

E, se le cose stanno davvero in questo modo, allora James Incandenza è stato realmente assassinato? O, quantomeno, è stato spinto a un suicidio improbabile (svoltosi con modalità ancor più complicate di quelle note ai più)? E se sì, da chi?

Certo, ci sono questioni che sembrano rendere problematica la mia chiave di lettura.

Innanzitutto è d’obbligo dichiarare che “Infinite Jest” potrebbe essere anche ciò che ho detto, ma è lampante che sia al contempo molto altro. Ad esempio, balza subito agli occhi il fatto che non vi sia solo Amleto, ma che i figli in ballo nella vicenda siano ben tre: Orin, Hal e Mario. Su questo punto, però, è bene far notare che già altri*** hanno rilevato un ulteriore parallelo molto curioso, e cioè quello con “I fratelli Karamazov” (citati a puntino, nel romanzo stesso, a pag.1164 – Ed.2016 Einaudi). In una simile ottica sovrapporre Hal a Ivan (con la sua razionalità estrema e la sua possibile visione del volto del male nella stanza, di notte), e Orin a Dimitri (con il suo rapporto di dipendenza complicata dalle donne, e con il triangolo amoroso “Orin-James-Joelle” che ripete quasi alla perfezione quello “Dimitri-Padre Karamazov-Grushenka” – anche se il rapporto tra James e Joelle forse è stato solo artistico, e quello sentimentale, seppur sempre sospettato, non è mai stato consumato; e non si può neppure ignorare che Orin è indubitabilmente anche il protagonista di “1984” di Orwell, e che il suo grido finale: “Fatelo a lei!” lascia pochissimi dubbi), e soprattutto Mario ad Aleksej (con la sua bontà estrema, disumana e in un certo senso, neanche troppo figurato, patologica), risulta sostanzialmente facile.

Questo però apre un ennesimo campo di indagine, e cioè: chi è Smerdjakov?

Ne “I fratelli Karamazov” è proprio quest’ultimo, quarto figlio illegittimo, ad aver ucciso il padre. E dunque torniamo sempre lì: c’è forse un quarto figlio illegittimo che può aver ammazzato James Incandenza? Su questo punto (e anche sugli altri, lo ammetto) non ho risposte certe, ma avanzo un’ulteriore e semplice ipotesi sul nome del potenziale assassino: Don Gately mi pare assai sospetto. Innanzitutto, infatti, ci si deve porre la domanda più semplice: se non si conoscono l’un l’altro, perché la Cicogna Matta gli appare in forma di spettro? E poi, se a pag. 20, come sappiamo, ci viene detto che Hal e Don Gately ritrovano il teschio di Lui in Persona, come sapevano che era sepolto lì (ovunque fosse; non per forza assieme al corpo, anzi… difficilmente nello stesso luogo del corpo)? E concludendo, in entrambi i sensi, al termine del romanzo ci viene raccontato dell’ultimo drammatico black-out mentale della carriera di tossicodipendente di Don Gately: ma cosa ha fatto lui in quelle lunghe ore di non consapevolezza? Non possiamo certo dimenticare quante volte nel testo ci è stato ripetuto che quelli come lui sono in grado di commettere atti senza neppure ricordarsene, come avvenne nel caso di Guillame DuPlessis. Atti di cui c’è da pentirsi, s’intende.

Se ci sono esperti molto più esperti di me****, sarei ben felice di sapere cosa pensano al riguardo.

E, lo ripeto, se tutto questo è stato già detto, e studiato, e analizzato altrove, vi prego di farmelo sapere, così che possa leggere e approfondire la questione.

Certo: che tutto questo sia vero o meno, D.F.W. rimane comunque un genio].

Credo sia (D.F.W.) l’unico autore che mi abbia mai fatto pensare: “Io non raggiungerò mai una simile vetta d’intelligenza. Tutto questo è fisiologicamente impossibile da attuare per i miei neuroni”. Il che, probabilmente, vi farà sorgere la domanda: “ti ritieni invece capace di scrivere allo stesso livello di Pascal e Dostoevskij?”

La questione sembra così poter andare a intaccare l’umiltà che dicevo (all’inizio del testo) di voler preservare. Ora, però, vi spiego.

Ebbene: no.

Al momento, sono ben lontano dalle capacità di scrittura di un Pascal o di un Dostoevskij, ma credo che le loro abilità, seppur grandissime, rientrino ancora in un confine, per così dire, umano. Erano geni, senza dubbio, ma nelle loro parole ho sempre percepito una profonda umanità (appunto), una parte di tutti noi, un afflato comune, seppur espresso in maniera sublime. In parole povere, se tutti vivessimo abbastanza a lungo, e fossimo dotati di grandissima intelligenza, e ripercorressimo gli stessi passi di quei due autori, credo che potremmo arrivare a comporre opere molto simili alle loro.

D.F.W. invece non mi rende la stessa sensazione. Mi pare, al contrario, che il suo intelletto toccasse vette inaccessibili al 99% degli uomini. Insomma, credo che se tutti noi vivessimo abbastanza a lungo, e fossimo dotati di grandissima intelligenza, e ripercorressimo gli stessi passi di D.F.W., comunque non saremmo ancora in grado di comporre opere paragonabili alle sue. E questo, forse, perché lui era dotato di un talento innato irraggiungibile.

Il che, sia altrettanto chiaro, non significa che ritengo D.F.W. una sorta di divinità disumana, assisa su un’isola di sapienza al centro di un oceano di serietà. Wallace, in realtà, sapeva essere profondamente umano e divertente. In effetti, basta rivedere proprio quel breve video che ho segnalato all’inizio di questo articolo e che racconta i suoi giorni a Capri. È evidente che abbiamo dinanzi un uomo che sa ridere e giocare con il pubblico, che sa godersi (o almeno ci prova) una partita di uno sport che non conosce, e che si agita persino in modo volutamente goffo e buffo, ad un certo punto (quando sono in giro, per le strade di Capri), solo per strappare un sorriso a Zadie Smith. Eppure, nonostante questo, ogni suo discorso, anche il più semplice, sembra sempre essere permeato, quasi ingabbiato, in una riflessione costante, non triste (o non per forza tale), ma inevitabilmente profonda. E, lo ripeto, credo appunto che ciò fosse dovuto al suo talento innato, continuo e del tutto connaturato al suo io.

Certo, mi rendo conto di quanto tutto quest’ultimo discorso sia confuso ed effimero. Si basa, in effetti, su semplici sensazioni personali, e non può essere avvalorato o dimostrato in alcun modo.

Ciò non toglie, però, che io lo pensi.

*Live Online with David Foster Wallace, 17-5-1996

**Non sono certo il primo ad aver notato ciò, e al riguardo vi sono altre possibili interpretazioni, come quelle espresse qui:

1: http://www.aaronsw.com/weblog/ijend

2: https://www.reddit.com/r/InfiniteJest/comments/6qbaq9/can_any_clear_up_my_confusion_about_jois_head/

3: https://engagedscholarship.csuohio.edu/etdarchive/846/  e tutta la sua bibliografia (andatevela a vedere, perché ricopiarne buona parte qui sotto è un lavoraccio che evito di sobbarcarmi – e no, non farò copia-incolla, cari lettori; andate a leggere davvero, per una buona volta).

Come noterete, per quanto riguarda soprattutto il parallelo tra Amleto e Infinite Jest, vi sono vari saggi che affrontano la questione in “forma teorica”, per così dire. Sino ad oggi, però, non ho trovato nessuno che ritenga questa vicinanza tra i due testi fondamentale per comprendere la trama stessa di Infinite Jest, e ci si limita invece, sempre, a un affiancamento solo teorico e concettuale.

***“The Brothers Incandenza: Translating Ideology in Fyodor Dostoevsky’s The Brothers Karamazov and David Foster Wallace’s Infinite Jest” – Timothy Jacobs – Texas Studies in Literature and Language – University of Texas Press.

****In fondo sono soltanto un semplice lettore, io.

Tutto questo, per me, è innanzitutto un gioco (ma un gioco serissimo, come la letteratura aspira sempre a essere; e anche per questo non ho utilizzato neanche un “Sic” all’interno di un simile articolo: altrimenti poi il gioco sarebbe risultato troppo semplice da cogliere).

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

Gli orizzonti mobili di Daniele Del Giudice

di Vito Santoro

Sabato prossimo avrebbe ricevuto il Premio Campiello alla Carriera, Daniele Del Giudice, morto questa notte a causa della gravissima malattia che da tempo gli aveva tolto parola e memoria. Riconoscimento che appare ora ancora più tardivo di quanto non fosse già sembrato a fine luglio quando la “Fondazione Il Campiello” comunicò la sua decisione di volere così onorare uno dei più importanti scrittori contemporanei. Al di là di questo, la morte non potrà cancellare – mi si scusi la retorica – uno straordinario corpus narrativo e saggistico omogeneo e coerente, dominato dalla ricerca incessante di sonorità e di immagini attraverso due movimenti continui: l’uno nello spazio, l’altro nel tempo. Movimenti che si intrecciano e si dissolvono quasi cinematograficamente l’uno nell’altro, a raggiungere una nuova dimensione ibrida, quasi pietrificata, paragonabile a quella in cui era immerso nel suo «delirio di immobilità», l’Arsenio di Montale. Proprio quel Montale, scoperto dal geniale Bobi Bazlen, sulle cui tracce il giovane Del Giudice si era lanciato trentacinque anni fa esatti sulle pagine dello Stadio di Wimbledon (1983; in questi giorni ripubblicato in Francia nella traduzione di René de Ceccatty), accompagnato dalla nota in quarta di copertina di Italo Calvino, che individuava nello scrittore, allora trentaquattrenne, il tentativo di «rappresentare le persone e le cose sulla pagina». E questo «non perché l’opera conta più della vita, ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all’oggetto, in un’appassionata relazione col mondo delle cose», è possibile «definire in negativo il nocciolo irriducibile della soggettività, cioè sé stesso».

Non a caso, Lo stadio di Wimbledon rispecchia l’irresolutezza di un ulisside io narrante, che tende incessantemente ad una meta e al contempo, alla fuga e al non ritorno. Dal canto suo, Staccando l’ombra da terra si presenta come una raccolta di racconti, dominata dall’alternanza di registri stilistici, fornendo all’insieme dell’opera una tensione centrifuga, che ne mina alle radici la coerenza strutturale, bilanciata da una tensione centripeta ipostatizzata dalla ripresa del personaggio dell’istruttore, sotto nome proprio o sotto mentite spoglie, nel presente di fine ventesimo secolo o agli albori dell’aeronautica.

Analogamente Orizzonte mobile è costituito dall’assemblaggio di pagine in cui Del Giudice racconta una sua esperienza personale in Patagonia e in Antartide, il «grande pozzo freddo della Terra», avvenuta nel 1990, alternate ad altre derivanti dalla riscrittura dei taccuini di due esplorazioni nell’Antartide di fine Ottocento, quali quelle dell’italiano Giacomo Bove e del belga Adrien de Gerlache. Questi scritti, scrive Del Giudice, «sono una letteratura, ma non si tratta di “libri di viaggio”; per l’affresco storico, la forza della passione, la densità del mistero e un ethos sulla soglia dell’incognito e per gli apparati scientifici sono gli ultimi e veri grandi racconti di avventura, il genere che Stevenson, nella sua classificazione del romanzo, definiva il più sensuale, dove gli autori furono anche personaggi e parti in commedia». Precede il tutto il resoconto particolarmente dettagliato di un altro viaggio, più recente, fatto dallo scrittore nel 2007. Resoconto però di un viaggio mai avvenuto. Ne deriva un racconto formato da più storie, che in realtà sono un’unica storia. Del resto, gli esploratori nel corso dei decenni si sono tutti mossi in una terra dotata di un’essenza quasi metafisica e perciò capace di vincere il tempo. Bastano pochi chilometri a separare un fuso orario dall’altro. Il «paesaggio-passaggio» si estende per chilometri e chilometri sempre uguale, tanto che i quattro viaggi sembrano svolgersi lungo lo stesso asse temporale. La presenza dell’uomo è pressoché accidentale. Ragion per cui a prosperare sono solo i pinguini grazie alla loro natura di «grandi incompiuti»: «Non ce l’hanno fatta a diventare pesci, dato che l’acqua non è il loro elemento definitivo; pur essendo uccelli non volano più, e come bipedi sono lenti e preoccupati». Ma l’Antartide è anche il luogo in cui «scienza esatta e phantāsia» possono collidere tra loro. Così il nuovo “orizzonte mobile” da raggiungere, sembrerebbe essere, per Del Giudice, quello della scienza, così difficile da tradurre sulla pagina. Solo misurandosi con il “non-letterario”, adattandosi al suo linguaggio, la letteratura può raggiungere il “Tempo Maggiore”, cioè quell’altrove “essenziale” situato al di là della cronaca, e diventare strumento di conoscenza in un presente sempre più caratterizzato dalla morte della critica e dalla catastrofe del valore d’uso.

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

Come un ascensore che sale, si rompe e precipita: “Borgo sud” di Donatella Di Pietrantonio

di Antonio R. Daniele

Borgo sud è il seguito dell’Arminuta, libro di tre anni fa. Questo dato ci libererebbe facilmente dal compito di introdurre i personaggi e anche parte della storia. Ma siccome ogni narrazione e ogni libro, per quanto strettamente legati a un’altra narrazione e a un altro libro, hanno di per se stessi un loro spazio di autonomia, scriveremo qualche riga su questo nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, senza ricordarci troppo che si tratta del sequel del precedente. Va detto, tuttavia, che la scrittrice non ha fatto molto per tenerci lontani da questa categoria, non tanto per ciò che è ma perché sequel vuol dire soprattutto audiovisivo.

         Sembra che oggi non si possa scrivere un romanzo degno di considerazione presso la critica senza che esso sia strutturato come una certa maniera di fare cinema e, soprattutto, di fare serie televisive. Il vecchio “montaggio in alternato” di impianto cinematografico, rinnovato e portato a evoluzioni estreme dalle piattaforme televisive a pagamento,  è diventato il segno di riconoscimento dei narratori di questo tempo, una specie di “Green Pass” del bravo romanziere: se non ce l’hai e se non puoi esibirlo, non vieni ammesso al salotto buono. Guai, oggi, a scrivere una storia che abbia un tempo di narrazione lineare; nella quale la lettura segua i fatti secondo causa ed effetto: il lettore si annoia, dicono; quel tipo di romanzo è morto, ammoniscono.

         Pertanto, anche Borgo sud, come molti altri romanzi italiani degli ultimi quindici anni almeno, aderisce in pieno a questa modalità, ma vorremmo dire “moda”: l’inizio della vicenda al tempo presente è un pretesto per avviare il motore della macchina narrativa che in alcuni casi si avvita in pannelli sovrapposti a ritmo incalzante. Non so se tutto questo possa scansare nel lettore il tanto paventato rischio della noia, ma di certo lo costringe ad andirivieni temporali a volte virtuosistici, a volte anche febbrili, secondo la maniera di certe serie tv d’oltreoceano evidentemente, ormai, del tutto parte della nostra struttura mentale.

         Detto questo, Borgo sud è un ottimo romanzo: possiede una scrittura potente che rende importante la storia stessa. Dopotutto, questa – lo sappiamo già da L’arminuta – non è che la storia di due sorelle in perenne conflitto con la propria famiglia; ora è anche la storia di una ragazza che disobbedisce come respira e di una donna che lascia il paese per la città; la storia di una ragazza che si ritrova a crescere un figlio senza suo padre e di una ricercatrice il cui matrimonio va in malora perché il marito scopre la propria omosessualità. Visto così, è un romanzo come migliaia di altri. Naturalmente è molto di più. È la storia di un borgo abruzzese. Ma anche questo elemento non è nuovo nel romanzo italiano sulla linea adriatica: dal veneto di Matteo Righetto al salento di Mario Desiati, la narrazione della terra avita come discolpa non richiesta della nostra vocazione globalizzante è un’altra delle pratiche più o meno fortunate degli odierni narratori italiani o in lingua italiana. Di Pietrantonio ha, però il merito di portare questa pratica alla superficie delle cose senza assilli e soprattutto senza compiacimenti di sorta. È una scrittura di sofferenza quella di Di Pietrantonio ed è – ci pare – la sofferenza di una donna costretta suo malgrado a fare i conti con una terra che non vuole lasciare i propri figli. L’Abruzzo della scrittrice è una delle cerniere d’Italia, va detto. È una terra screziata, un territorio che ancora oggi non ha risolto il conflitto che di fatto tutto il Mezzogiorno si porta dietro: fuori o dentro l’area rurale; fuori o dentro il territorio di pesca. E in che modo. È il problema della protagonista, della narratrice, il cui nome non c’è. Ma ci sono giorno dopo giorno, e negli strati giustapposti e impilati delle tante tessere del romanzo, i segni del passato, come una forza della natura che si riprende il suo posto. La narratrice ha provato a scappare verso nord, anno per anno: alla fine è stata tirata giù a sud, nel borgo. E più ha provato a risalire lo stivale, da Pescara a Macerata, fino a scavalcarlo in Francia, più la discesa è stata vertiginosa. Come un ascensore che, salito un edificio altissimo, si rompe e precipita. E chi vi è dentro si fa male, si “rompe la coccia”, come accade ad Adriana, la sorella giovane, la scapestrata. Ma la maggiore non si fa meno male, perché porta il fardello della coscienza delle cose. Soffre il male di molti: il proprio, di donna che si credeva affrancata dall’abbruttimento del borgo e si è dovuta scoprire frodata; quello della sorella che sfida lo sconcio della vita restandovi sempre in credito e sempre incapace di passare all’incasso; quello di una madre e di un padre tenuti “a parte”, nel borgo. Come una cosa brutta.

         Abbiamo detto che la prosa di Di Pietrantonio è potente. Lo è nonostante qualche volta vi si infili la lusinga della tenerezza in frangenti che paiono preludere a qualcosa di decisivo. In Di Pietrantonio sul più bello c’è qualcosa che cola:

– Lascialo sta’ a mio cugino – ha detto Adriana e si è messa tra i due, di faccia a Rafael, pronta a sventare la rissa ma in fondo orgogliosa di essere lei il motivo. Ci guardavano tutti e io ero ammutolita dallo stupore, da un imbarazzo giustificato.

Vieni, usciamo, – ho detto poi a Vittorio toccandogli la schiena.

Le creme del cono che non aveva leccato colavano lungo la cialda e fino al polso. (p. 44)

Mia sorella, che a dieci anni non aveva mai visto i pesci, li ha puliti con abilità, e una grazia selvaggia nei gesti. Alla sogliola ha intaccato la pelle in un punto esatto e l’ha spogliata con uno strappo rabbioso. Uno schizzo l’ha raggiunta alla guancia mentre tagliava una seppia, le è colato come una lacrima nera. (p. 83)

Insomma, c’è una traiettoria verticale a scendere, a cascare, cercata e quasi desiderata. Qualcosa cola, scende e precipita come se non fosse possibile altro. Qualcosa torna a valle: le arminute permanenti di Donatella Di Pietrantonio sono una dannazione che le pieghe stesse della parola rivelano come un soffitto che trasuda sulla nostra testa sino, forse, a crollare. 

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

Il sogno di Don Abbondio e quella “cosa” chiamata romanzo

di Demetrio Paolin

Sono seduto in commissione di maturità: un mio alunno, non il migliore né il peggiore, cerca di trovare una possibile via di fuga al testo che gli ho dato da leggere: è un brano da Fuoco di D’Annunzio. Lo ascolto distrattamente: è il quinto a parlare di una lunga mattinata di colloqui, quando percepisco tra le sue parole un concetto che mi colpisce: «L’autore ha eccelso e nell’arte della poesia e nell’arte del romanzo». È una breve frase, mezza rabberciata all’interno di innumerevoli “è quando”, “è tipo”, “è che succede”etc. etc., che mi colpisce, perché il mio alunno ha toccato un problema centrale del tema del romanzo, ovvero: il romanzo è un genere o un’arte?

         Entrambe le distinzioni, verrebbe da dire qui, e semplificando molto, hanno la loro dose di verità, ovvero partecipano a fornire i confini ad un’opera o testo scritto che difficilmente pare porsi dei limiti. Se vogliamo, esistono due ipotesi:

  • chi propende per il termine genere –  ovvero il romanzo è un genere letterario (così come l’epica, o il poema cavalleresco, la tragedia, e la commedia) –  si riconosce in una scia di ragionamenti che, ripercorrendola a ritroso, ci porta a Platone al suo dialogo Repubblica;
  • chi invece propende per definire il romanzo un’arte – ovvero il romanzo è un’arte, sostenendo una differenza di sostanza e di concetto dalle altre forme della letteratura, e definendolo come arte a se stante (come il cinema o il teatro o la pittura) – ha il suo padre nobile in Aristotele.

Per eliminare ogni ambiguità in chi legge questo breve contributo, l’estensore si dichiara favorevole al concetto di romanzo come arte, e pur trovando sublime Platone come narratore, pensa che Aristotele, quando nella Metafisica afferma «Ogni potenza è impotenza dello stesso e rispetto allo stesso di cui è potenza» (ovvero che ogni cosa è tale perché può essere messa in atto come negazione di se medesima), avesse trovato una buona ipotesi speculativa di partenza per la definizione della “cosa-romanzo”. Aristotele dichiara che un artista è tale perché può decidere di non utilizzare la sua arte; un pianista è tale perché può smettere di suonare, uno scrittore di scrivere. Questo ragionamento può allargarsi alle opere: un romanzo è tale perché può non essere un romanzo, può in potenza rinunciare a esserlo. E come tale noi possiamo dire con più precisione cosa non è un romanzo, ma non esso cosa è.

L’esperienza razionale che abbiamo della forma romanzesca ci pone di fonte a una serie di problemi definitori non indifferenti. La dimestichezza che molti lettori, critici o meno, hanno nei confronti del romanzo è appunto quella di non sapere come definirlo; anche la riflessione sull’imitazione, pur con le dovute differenze tra Platone e Aristotele, ci porta in una sorta di vicolo cieco: l’idea che il romanzo sia il prodotto di un’arte che imiti la realtà non è completamente corretta, poiché l’arte non imita la vita, ma si oppone ad essa, crea un diaframma di percezioni ed esperienze diverse; la vita è quasi sempre alogica, ateleologica. Cosa che il romanzo non è. Anzi il romanzo, dal punto di vista delle strutture del racconto, possiede una logica interna (il montaggio dei capitoli) e un telos, una direzione, un fine, dovuto al solo fatto che esista un incipit e un explicit: Anche i testi che hanno scardinato più profondamente le strutture romanzesche, penso ad esempio all’Ulisse di Joyce, possiedono un capitolo in cui la storia inizia e un capitolo n+1 in cui la storia va a concludersi, che è il momento in cui concretamente il lettore chiude il libro, o anche solo perché il numero di pagine stampate dell’editore finisce.

Ora, la riduzione di qualcosa di irriducibile, come la vita, in una struttura coerente e organizzata potrebbe – e in parte lo fa – fornire una buona, e molto generale, definizione di cosa sia un romanzo. Nell’incipit de La città di vetro Paul Auster scrive, se non ricordo male, «tutto è reale tranne il caso». Il fatto stesso che questa frase venga scritta all’interno di un romanzo in cui c’è una fitta trama di “casi” che portano allo svilupparsi dell’azione ci fa comprendere come il romanzo propenda per sua natura ad organizzarsi e a far finta che il suo caso, il caso romanzesco, sia casuale, mentre è il prodotto preciso e predisposto di un’arte, quella del romanzo appunto. Eppure, nella finzione del romanzo il protagonista vive quegli episodi come se fossero dettati dalle causalità della vita: la telefonata, il quaderno rosso, gli incontri che avvengono via via sono il frutto o paiono il frutto di una casualità.

         Se quindi provassimo a vedere il romanzo come il tentativo di fornire una descrizione di una esperienza, se fosse il romanzo una esperienza fenomenica, più che mimesi della vita; se fosse una sorta di ricomposizione di una realtà completamente immaginata, mai accaduta, che tipo di esperienza ognuno di noi può avere dell’albero che vediamo durante una passeggiata, del fiore all’interno di una serra, della psicosi dell’omicida, o della gioia dionisiaca di due ballerini? Nessuna. Siccome la vita vera ci è preclusa,  il narratore crea dei personaggi che possano diversamente da lui/noi avere una esperienza, fittizia, della vita che lui/noi non ha/abbiamo.

Mentre concludevo questi pensieri mi sono ricordato di un passaggio, che durante questo ultimo anno ho letto e commentato parecchie volte a scuola. Leggiamolo ad alta voce:

Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, potè finalmente chiuder occhio: ma che sonno! Che sogni! Bravi, Don Rodrgio, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate!

Siamo al principio del capitolo II dei Promessi Sposi. A fare questi sogni è Don Abbondio. In questi mesi, rileggendo per l’ennesima volta il romanzo, queste due frasi si sono impossessate della mia fantasia e dei miei ragionamenti.

Cosa mi colpisce di questo sogno? Intanto nei Promessi Sposi l’attività onirica dei personaggi è fondamentale: molti personaggi sognano. Ad esempio, sogna Renzo nella notte prima di attraversare l’Adda e sogna Don Rodrigo nei deliri della peste. Entrambi questi sogni, però, avvengono ex post,nel senso che i protagonisti sognano qualcosa che è già avvenuto. Il sogno, quindi, in questi casi è come una sorta di rimorso della coscienza.

         Il sogno di Abbondio, invece, soprattutto quando parla di «rupi, fughe, inseguimenti, grida schioppettate» sembra fornirci il riassunto di ciò che noi come lettori leggeremo nel corso della storia; verrebbe da dire che il personaggio del romanzo sogna il romanzo stesso; questo sognare diventa ancora più importante, se lo mettiamo in relazione con la centralità di Abbondio per lo sviluppo della trama: una centralità narrativa a cui ovviamente si accompagna una centralità ideologica.

Narrativamente, senza Abbondio non avremmo il romanzo. È Abbondio che mette in moto la macchina romanzesca: la sua paura, la sua codardia e la sua mancanza di forza d’animo fanno sì che possa esistere l’antefatto, ovvero la scommessa di Don Rodrigo con il cugino. Se il curato avesse compiuto il proprio dovere non avremmo i Promessi Sposi. Abbondio, quindi, “contiene il romanzo”; il romanzo, che ci appare sulla pagina in tutta la sua finitezza e creaturalità, in potenza è in lui. Quando Don Abbondio – ma potremmo dirlo qualsiasi personaggio romanzesco – entra in scena, è un individuo coinvolto «in episodi con un senso ancora da costruire» (Proguidis, 2021, p. 160); nel preciso apparire del personaggio sulla pagina noi lettori pensiamo che esista un senso, ma le parole del romanzo ci restituiscono solo un individuo, una persona che cammina: l’apparizione in carne e ossa del personaggio precede il senso del personaggio. Per chiarire, si pensi a come è diverso l’apparire di Ulisse nell’Odissea: noi già sappiamo tutto di lui dall’invocazione posta all’inizio del poema – l’uomo dal multiforme ingegno – e quindi il suo apparire in lacrime non produce lo stesso effetto, perché noi conosciamo il suo “senso” nella storia.  Abbiamo già avuto esperienza del senso del personaggio prima dell’apparire dello stesso; il romanzo inverte questa struttura cognitiva – da “prima il senso e poi il personaggio” a “prima il personaggio e poi il senso” – che per secoli ha dominato la narrazione.

         È come se fossimo in un sogno in cui l’interpretazione del sogno stesso avviene al risveglio e proviamo a tirare i fili delle immagini suscitate nel sonno. Non stiamo imitando la vita, non c’è una mimesi nella vita in questo apparire di Abbondio, la sua natura umana; la sua singolarità ci sono precluse, non conosciamo il senso del suo venirci incontro, del suo camminare lungo le stradine del lago di Como. È l’apparire del romanzesco, del personaggio romanzesco.

         Egli contiene in sé tutto quello che leggeremo nelle pagine seguenti; infatti e casualmente (nulla è reale tranne il caso!) lo osserviamo mettere un dito tra le pagine di un libro per ricordarsi il punto e non perdere segno della lettura. Così mi chiedo e vi chiedo: Siamo sicuri che quel gesto non sia compiuto a nostro favore? Per non farci perdere il segno di ciò che accadrà?

         Solo continuando a leggere il romanzo lo scopriremo.

In La Seconda Repubblica delle Lettere

Call for Paper – Sezione: La Seconda Repubblica delle Lettere

Titolo: Dopo la post-verità: narrare in Italia oggi

La post-verità è già vecchia. Ha poco meno di cinque anni, ma è ormai vecchia. Ed è, in una certa misura, assodata. La post-verità è diventata quel che vogliamo sentirci dire, che vogliamo sentirci raccontare, scrivere, narrare. Una alternativa alla realtà è – di fatto – proprio quel che vogliamo: la cronaca della post-verità ha preso piede perché ci permette di aderire a una ambizione che abbiamo sempre avuto: credere a quel che vogliamo credere, a quel che ci fa comodo, perché la realtà vogliamo “averla”, farla noi stessi. Ciascuno di noi. Il potere della scrittura che il cosiddetto “lettore comune” fino ad alcuni lustri fa vedeva esercitato da una certa comunità percepita come fuori da sé e ancora inattingibile è ora una sostanza liquida e fluida, fra milioni di rivoli e di canali che tutti abitano come il brodo primordiale.La post-verità è un “oltre” che sta dopo Colonne d’Ercole al di là delle quali c’è la vastità di un oceano di verità, una entità che scorre senza fermarsi, disciolta all’infinito, un gesto che si può ripetere milioni di volte e che, alla fine, ci lascia come ci aveva trovato. La post-verità sono le post-verità, atti in parole dichiarati tutti validi e tutti legittimi: tutti vogliono essere artefici di qualcosa e tutti vogliono poterlo dire, scrivere e narrare. Con la stessa autorevolezza dello scrittore di professione. Ma esiste oggi ancora lo scrittore di professione? E cosa vuol dire oggi – cioè ora – scrivere? Cosa vuol dire ancora? Quindici anni fa reagivamo con sdegno quando qualcuno reclamava la liceità di Faletti o Volo rispetto a Tabucchi o Magris, che noi difendevamo ancora come nomi di stirpe. Si moltiplicano le scritture ibride, non demorde l’autofiction. E, soprattutto, cresce nei romanzi italiani degli ultimi anni la tendenza al “messaggio umanistico”, in controluce a un lavoro sulla scrittura spesso energico, qualche volta a una vera e propria angoscia formale.
Si accettano contributi di taglio critico militante sulla narrativa italiana degli ultimi 5 anni max, di lunghezza compresa tra le 10000 alle 20000 battute, con citazione interna al testo “autore-data” (nota “all’americana”) e un elenco dei testi riportato in coda all’articolo/saggio.

Gli interessati sono pregati di inviare il prima possibile una proposta di contributo con le indicazioni di argomento e abstract (70 parole max) + breve curriculum biografico ai seguenti indirizzi:
vitosantoro@live.it
antonio.daniele@unifg.it
letterazero.nuovaserie@gmail.com

Le proposte pervenute saranno valutate dal Comitato di Redazione che ne comunicherà agli interessati l’eventuale accoglimento.

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

Necrologio di Salvo Montalbano

di Francesca Bellucci

Riccardino è solo formalmente il capitolo conclusivo del ciclo di romanzi sulle indagini del Commissario Montalbano: di fatto il romanzo si svincola dagli effetti che il tempo ha impresso sulla scrittura dell’autore e quindi sul personaggio.

         Da Riccardino emerge il lavoro narrativo che sottace ai personaggi e alle storie che abitano: rompe la ben nota terza parete teatrale o l’altrettanto noto “cielo di carta”: unisce le fila che gli anni letterari di Salvo Montalbano, ontologicamente eterni oltre le influenze che la caducità impone ad ogni autore, hanno intessuto con i lettori e i telespettatori. È una resa dei conti, un tornare indietro nel tempo a quando papà Camilleri ha plasmato il personaggio letterario e accettato quello televisivo, costola tenace e, in virtù di ciò, padrona di un’autonomia che fa del Salvo Montalbano televisivo il baluardo del successo dei romanzi.

          Salvo Montalbano non esiste come unica entità adattata a due contesti di trasmissione narrativa tra loro eterogenei, ma è il personaggio letterario e quello televisivo, ognuno dei quali abita la sua dimensione con tratti propri. Il Montalbano letterario, più schivo e riottoso del televisivo, è tutto chiuso nel suo mondo. Una dimensione circoscritta tra un pupo e l’altro della tradizione siciliana; tra giochi delle parti e assiomi fissi di una narrativa costante e per questo familiare. Il Montalbano che per anni ha campeggiato le classifiche editoriali è nato uomo e da uomo ha combattuto il tempo che passa, le avversità della sua terra che è diventata terra di tutti, le contraddizioni e le discontinuità che hanno trovato forma tra le azioni costanti dei personaggi del suo universo. Il Montalbano televisivo domina una dimensione dai confini ben più definiti rispetto a quello letterario ma assai più impercettibili, tanto da far vedere all’interno, da permettere agli spettatori di entrarvi e diventarne parte non in ragione di una partecipazione fattiva ma di un’affezione che fa degli stereotipi camilleriani un odore familiare. Il filo rosso che unisce i due commissari e le cui nervature fanno da struttura all’ultimo romanzo pubblicato seguono però un percorso che in due momenti precisi della scrittura di Camilleri si definisce ontologicamente: Il campo del vasaio del 2008 e Il metodo Catalanotti,pubblicato dieci anni più tardi.

          L’evoluzione o l’involuzione di Salvo Montalbano esula da Riccardino e va rintracciata proprio nelle pubblicazioni del 2018 e del 2019, quando Sellerio dà alle stampe Il metodo Catalanotti e Il cuoco dell’Alcyon. A questo punto la dimensione abitata da Montalbano si frantuma sotto l’incedere di una forza temporale, quella che abita la realtà, a cui il mondo di stereotipi camilleriani risponde sgretolandosi, elevandosi dalle storie e assumendo i tratti peculiari della commedia e della farsa. Le maschere si degradano assumendo connotazioni macchiettistiche che traspongono le storie in una dimensione carnevalesca, come se uscissero da quelle dinamiche narrative per le quali un personaggio non sa di essere personaggio ma si confonde tra le voci degli uomini con lo status di “persona letteraria”.

          Con Il metodo Catalanotti vediamo un Montalbano che dismette le vesti del personaggio per percorrere la strada dell’uomo, inciampando tra una contraddizione e l’altra della vita e dell’amore. Il tradimento di Livia non funge solo da plot twist della trama, ma è fondamentale alla sua paradossale umanizzazione. Sin da La forma dell’acqua ci vengono presentati quei piccoli vizi inconfondibili di Montalbano, quei riti narrativi che la trasposizione televisiva fissa in immagini consolidate negli anni: la prodromica chiamata di Catarella, i pizzini di Fazio, Augello il femminaro o ancora Pasquano e la sua ruvidezza o la sua passione per i dolci siciliani. Tutte queste connotazioni, che si configurano come riti narrativi, delineano una dimensione sì latente per la forma di trasmissione, la scrittura e la fiction, ma assai più poderosa del genere letterario a cui i romanzi e le sceneggiature appartengono, quella del teatro dei pupi. E pupi della tradizione siciliana sono i personaggi de Il cuoco dell’Alcyon, un metateatro in fieri in cui la messa in scena si intreccia con la trama, scomponendo gli stadi narrativi, i personaggi, mettendo in discussione la pacata e rassicurante fissità dei personaggi. Il commissario degli esordi risulta essere assai più personaggio macchinoso rispetto alle vesti indossate negli ultimi anni, vesti fisse ma pregne di variabili in divenire. Le sue azioni, nei primi dieci anni di pubblicazioni, si riassumono in tre parole chiave prive di sfumature: sicilianità, curiosità e giustizia. Ognuno di questi termini si fa canone di un approccio vitale continuativo. Questa continuità è il vessillo di tutte le pubblicazioni che vanno dal 1994 al 2008 quando Sellerio dà alle stampe Il campo del vasaio: Montalbano si abbandona al suo teatro, fissa la sua storia in metafora che, iniziata con la trama a riferimento biblico, approderà infine a Il metodo Catalanotti.          Per dieci anni l’esattezza delle sue indagini si inerpica per macro-riferimenti, similitudini; la narrazione si fa teatrale fin quasi al manieristico. Le azioni dei personaggi, quelle di uso comune al tessuto narrativo, diventano elementi utili a cadenzare il tempo per far seguire picchi sempre più complessi e in lotta tra il microcosmo della narrazione e il macrocosmo della realtà che ha risucchiato Camilleri oltre il filtro dello schermo che ha accompagnato e influenzato tutta la sua vita. Camilleri e Montalbano fanno i conti con la realtà, con l’addio ai propri mondi, con il tempo. Con la morte il primo e l’eternità il secondo.

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

Andrea Bajani: narratore poeta e poeta narratore

di Vito Santoro

La narrativa di Andrea Bajani, dopo le brillanti prove degli esordi (pensiamo ai racconti lunghi Morto un papa, 2002, e Qui non ci sono perdenti, 2003, nonché al romanzo Cordiali saluti, 2005), risulta dominata da una innegabile tensione poetica (lo scrittore ha in un’intervista ammesso di avere fin dalla giovinezza, letto e scritto versi). Lo dimostrano la costruzione della trama per analogie sensoriali e immaginifiche, la scansione ritmica del racconto in ‘stanze’, di più o meno equivalente estensione e – si pensi, ad esempio, al notevole Un bene al mondo (2016) o ai settantotto quadri domestici, che compongono Il libro delle case (2021) – la scelta di condensare al massimo il linguaggio, seguendo la tradizione della fiaba, intesa, seguendo le suggestioni di Calvino, come filtro fantastico del reale, deposito di desideri, ossessioni, enigmi, paure, sogni e trasgressioni. E ancora l’uso del “tu”, che rinvia alla grande tradizione poetica del Novecento italiano, da Montale ad Amelia Rosselli, nel capolavoro Se consideri le colpe (2007), dove la seconda persona si fissa a mo’ di preghiera sulla figura spettrale di una madre morta, come ne Il seme del piangere (1959) di Giorgio Caproni, poeta amatissimo da Bajani. Analogo dispositivo adottato nei racconti brevi de La vita non è in ordine alfabetico (2014), che hanno nei Sillabari di Goffredo Parise, esempio non a caso di scrittura sospesa tra prosa e poesia, il loro modello dichiarato. In questo senso, le due sillogi poetiche, Promemoria (2017) e Dimora naturale (2020), non rappresentano un unicum, ma una ulteriore e consequenziale tappa dell’avventura personale e artistica di un narratore dallo sguardo poetico o, se si preferisce, di un poeta dalla forte tensione narrativa.

I sessanta componimenti di Promemoria (composti ognuno da un numero variabile di versi, per lo più endecasillabi, da quattro a tredici), si presentano come una successione di cose da farsi e «da non dimenticare», appuntate su una lavagna, si inseriscono nell’orizzonte tracciato da La vita non è in ordine alfabetico. In quel libro un maestro elementare, dopo aver cominciato a tirare fuori le lettere dell’alfabeto da una scatola di legno appoggiata sulla cattedra intorno alla quale si sono raccolti i suoi scolari, li rende partecipi del fatto che «con ventuno lettere […] si può costruire e distruggere il mondo, nascere e morire, amare, soffrire, minacciare, aiutare, chiedere, ordinare, supplicare, consolare, ridere, domandare, vendicarsi, accarezzare».

Anche in Promemoria le parole sono vive. Come quelle ‘gelate’ di Rabelais, hanno una consistenza materica, un corpo pulsante. Possono scuotere e persino distruggere schemi codificati e imposti: possederle permette di interfacciarsi con le gioie e i misteri della vita, coglierne i nessi. Si pensi, ad esempio, alla poesia n. 47: «Mettersi tra due parole, separarle /con il corpo: allargare le braccia / e intanto urlare. Rompere il senso/ della frase. Non spaventarsi se fa /male. Dopo tornare carta straccia». O alla n.18, dove il poeta esprime tutta la sua avversione contro la retorica dello storytelling: «Diffidare delle agenzie di pensieri / ammobiliati. Hanno cravatte viola / fluorescenti sopra gessati che non / devono essere stirati. Propongono appartamenti / con letti già dormiti. / Se offrono una terrazza, valutare». Tuttavia, mentre nei romanzi a emergere è una dimensione quasi orfica della parola, in Promemoria il «tu» scompare, sostituito da una serie di verbi all’infinito, che aprono la maggior parte dei componimenti (48 su 60), a costituire una serie di imperativi o di esortazioni che il poeta rivolge a sé stesso: «59. Cambiare la lampadina alla madonna / con bambino fulminata sulle scale. / Scendere in cantina per verificare / se scatta il numerino al contatore. / Tornare su a controllare se funziona. / Se ancora non si accende bestemmiare». Così l’io poetico si trova in una posizione liminare tra la personalizzazione soggettiva delle azioni indicate dai verbi e l’impersonalità provocata dal loro uso all’infinito, forma verbale non coniugata, cioè tra momenti certi, precisi, rassicuranti e cadute in una sorta di ‘altroquando’: «25. Telefonare ai morti il giorno dopo / il funerale. Lasciarli parlare poco: / solo il tempo di sentirli dire incerti / che non sono ancora in casa. Chi / lascerà il numero sarà chiamato. / Tra i due bip dire tutto in un fiato», dove la successione di parole come “telefonare” e “funerale” (analogamente a “guarnizione” e “cremazione” nella poesia 1), suscita una certa dose di inquietudine, sia pure stemperata da una cifra ironica che rimanda al Palazzeschi avanguardista. Tuttavia, dinanzi a un mondo caotico che rifugge dall’ordine alfabetico, può venire in soccorso lo sguardo fanciullesco: «6. Imparare a parlare dai bambini, / inventare il plurale delle cose. / Un bau due tre quattro bai. / Dimenticare le coniugazioni / far cadere in terra il tempo. / Non camminarci sopra scalzi». Del resto, sono appunto due bambini a mettere in crisi il Killer, armato di un potente quanto artificioso, armamentario retorico con cui verga lettere di licenziamento, in Cordiali saluti e sono un bambino, che ha un dolore vivo per amico, e una bambina ‘sottile’, che si prende cura di lui, custodendone le parole, i protagonisti di Un bene al mondo. Ma Bajani sa bene che con il sopraggiungere dell’età adulta, le illusioni dell’età giovanile leopardianamente svaniscono. Non resta così che rassegnarsi a «sbagliare / in maniera più professionale» (26) o sforzarsi di «guardare dove guarda il neonato / nel tempo tra la stella e il desiderio» (28).

In Dimora naturale Bajani riunisce invece cinquanta ottave numerate progressivamente, che si discostano però dalla tradizione della poesia narrativa, quella dei cantari e dei poemi cavallereschi, rinunciando alla rima, in favore di quella forma piana, essenziale e discorsiva. Il poeta scrittore dà vita a un bestiario formato prevalentemente da animali reali, raffigurandoli però spesso in gruppo. In questo modo sottrae loro materialità e corporeità: li presenta non come esseri colti nella loro singolarità e individualità, ma come entità astratte, visioni fantasmatiche, capaci di modificare, dilatandola e/o restringendola, la percezione del vivere dell’uomo. Si passa dai felini dei documentari visti sullo schermo del computer (1) alle «mosche dipinte / negli orinatoi» (3), dagli uccelli che «da settimane fanno disegni sopra i tetti» (11) ai lupi che «vanno dentro e fuori dalle / fiabe, vivono nel bianco della carta  / e in quello della neve», dal falco, «di cui si rinvengono le ossa / nella fusoliera» (42) alle «voraci papere del lago» (24), dalla zanzara che “ricompare” a fine anno (47) ai polpi, che «avrebbero il vantaggio / di un cervello non localizzato, distribuito dappertutto» (8). Fino ad arrivare all’uomo, che si ritiene di essere superiore a ogni altra forma di vita tanto da scambiare come un punto di forza quella che in realtà è una condanna: «l’inserimento del cervello dentro / il cranio» (30). L’uomo è una specie tra le altre: chi lo ha definito bipede, «era in malafede»: quello dell’uomo «è soltanto equilibrismo», «una prodezza trattenuta», passata la quale, torna «a quattro zampe» (16).

Così mentre è «proprio degli umani / credere al divino, mettersi a pregare, / pensarsi niente davanti all’universo», gli animali, privi di parola come sono, rendono materico il mistero della vita: per loro «finire nel presepe con Gesù bambino, / o dentro l’arca, è soltanto tempo perso» (41). A volte però uomo e animale condividono lo stesso stato confusionale, come il gabbiano «che porta il mare sul terrazzo». E sorge così l’interrogativo: è l’uomo a «ignorare / quanto dista il litorale, oppure»a essere disorientato è l’uccello, che scambia «una palazzina anni cinquanta / per la propria dimora naturale?» (13)

Ancora una volta in Bajani, come in Promemoria, la poesia ha il potere di scuotere e persino distruggere schemi codificati e imposti: possederla permette di interfacciarsi con le gioie e i misteri della vita, coglierne i nessi. La poesia – si legge nella cinquantesima ottava, significativamente preceduta da una pagina bianca e contrassegnata dal segno dell’infinito, al contrario delle precedenti, tutte numerate da 1 a 49 – «è un asteroide disperso, non monitorato», visibile ad occhio nudo ogni imprecisabile numero di anni.