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Demetrio Paolin

In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 9 [XV, 635-828]

di Demetrio Paolin

CIRCE/VALPURGA. Il capitolo XV dell’Ulisse è uno degli snodi centrali dell’intero romanzo di Joyce, queste sono le pagine con cui si chiude la seconda parte del testo, quella in cui si narrano le “avventure” di Bloom, lasciando spazio poi agli ultimi tre capitoli (XVI, XVII, XVIII), che rappresentano il ritorno a Itaca. L’Ulisse è, quindi, diviso in tre segmenti: una prima parte (3 capitoli) una seconda parte (12 capitoli) e una terza parte (3 capitoli): con un gusto simmetrico che non riscontrabile in Omero (la Telemachia occupa 4 canti, la parte centrale nell’isola dei Feaci occupa 9 canti, 11 canti la parte conclusiva con il ritorno a Itaca e la morte dei proci).  Il canto XV, che va sotto il nome di Circe nei diversi schemi del romanzo, non può essere solo letto rispetto a quell’episodio dell’Odissea. Dovrebbe essere abbastanza chiaro, che la riminiscenza omerica è giusto una traccia, a cui Joyce guarda per poi allontanarsi.

Il XV è una riproposizione di tutti i personaggi, situazioni, oggetti e cose, che il lettore ha incontrato fino ad ora. Se il capitolo X era una sorta di miniatura del romanzo, con le sue 19 sezioni che ricorcavano i 18 capitoli del romanzo, il XV mette in scena il teatro mentale dei personaggi, il loro inconscio, le loro fantasie. Parlo di teatro perché, appunto, il capitolo è costruito come un copione teatrale: Joyce ci aveva già mostrato qualcosa di simile per alcune pagine del capitolo VIII, una mise in abyme della discussione su Shakespeare che Stephen stava tenendo nella biblioteca. Nel capitolo XV assistiamo a qualcosa di diverso: la rappresentazione è notturna, ci sono molte allusioni sessuali (alcune legate al sadomasochismo), avvengono diverse apparizioni dall’oltretomba, c’è una tensione iniziatica, riguardante soprattutto Bloom, verso una “nuova umanità”, che ci mostra un Joyce vicino non tanto a Omero quanto al Faust  di Goethe (la notte di Valpurga).

Il capitolo è la descrizione di una catabasi nel profondo degli inferi, una sorta di rovesciamento carnevalesco dell’universo dell’Ulisse per come l’abbiamo sempre visto: «Una pigmea oscilla su una fune testa tra le ringhiere, contando. Una figura stravaccata su di un bidone di rifiuti si ripara con braccia e cappello e si agita[…]. Una megera in piedi accanto  a lui con una fumosa lampada a olio ficca nelle fauci del sacco l’ultima bottiglia che ha scolato. […] La megera torna alla sua tana, dondolando la lampada» [XV, 636]. Più avanti la trasformazione in una sorta di inferno allegro, alla Rabelais, è ancora più chiara: «Dai canali di scolo, tombini, pozzi neri, letamai si levano da ogni dove vapori stagnanti. Un bagliore balena a sud oltre lo sbocco a mare del fiume. […] Dalla parte opposta, sotto il ponto della ferrovia, appare Bloom, rosso, ansante, inzeppandosi pane e cioccolato in tasca. […] Uno specchio concavo lì di fianco gli presenta un derelitto, sperduto, lugubru Buluboom» [XV, 640-641].

Se dobbiamo rintracciare un antecedente omerico a questa discesa negli inferi di Bloom, dobbiamo leggere non tanto l’episodio di Circe, quando l’XI dell’Odissea. Questo canto è centrale nella struttura dell’intreccio del poema omerico: il racconto della discesa negli inferi, infatti, è posto poco prima del  ritorno a Itaca, anche se gli eventi narrati in Odissea XI sono ben precedenti; questo  ci suggerisce che  il nostos ha come primo passo lo “scendere negli inferi”: dobbiamo morire e solo successivamente possiamo tornare a casa. Il ritorno a casa ci è impedito se non prima attraversiamo la morte. Nella discesa agli inferi narrata da Omero, Ulisse oltre a incontrare Achille e Agamennone, incontra infine sua madre; è uno dei passi più toccanti del poema. Solo dopo questo racconto, che segna una sorta di stasi del poema, Ulisse potrà tornare ad Itaca: l’eroe deve morire, deve osservare la sua vita passata, vedere ciò che l’ha generato, perché solo così sarà pronto per il ritorno. Questo significa che il ritorno cantato da Omero raffigura un ritorno di un personaggio “diverso” da quello che è partito. Il ritorno produce, per forza, un scarto, una novità e una modificazione, che – in questo caso – è rappresentata da questa discesa nell’Ade. Non stupisce, quindi, che anche Bloom incontri i suoi genitori, il padre – «Cosa ci fai tu in questo posto? Non hai anima? […]. Non sei mio figlio Leopold, il nipote di Leopold? Non sei tu il mio caro figlio Leopold che ha lasciato la casa del padre e il dio dei suoi padri Abramo e Giacobbe?» [XV, 645], e la madre – «Sacro cuore di Maria, dove mai sei stato, dove mai?» [XV, 647]. C’è qualcosa di profondamente sapiente in queste pagine, pur nella loro potenza eversiva e carnascialesca, ovvero la contemplazione di un mistero più arcaico e profondo, qualcosa che riguarda l’inizio dei tempi, ancora prima che l’uomo potesse comprendere e razionalizzare la propria esistenza: il viaggio nel buio, nel grembo della terra che ci genera, e che ci uccide, è un itinerario che si conclude con la possibilità di conoscere e di conoscerci, solo il morire a noi stessi, solo il perderci nei nostri fantasmi e demoni interiori, solo il guardali davanti a noi ci dà la possibilità del nostos, del vero ritorno: «Va’ a vedere la vita. A vedere il vasto mondo» [XV, 648].

CAPRO ESPIATORIO/RE/TIRESIA. Il capitolo XV è famoso perché a un certo punto della narrazione Bloom rimane incinta e partorisce: «BLOOM: Oh, desidero tanto essere madre./ SIG.RA THORNTON: Stringimi forte, cara. Sarà presto finita. Forte, cara. (Bloom stringe forte e partorisce otto maschietti)» [XV, 706]. Joyce, nel corso del romanzo, ha disseminato le pagine di diversi indizi per farci comprendere come Bloom rappresentasse, narrativamente e  antropologicamente, un uomo completamente nuovo e diverso. Bloom è l’uomo che nasce dalla prima guerra mondiale, anzi meglio che si metamorfizza dopo la Prima Guerra: ci è entrato in un modo e ne esce diverso. Se vogliamo, forse a livello simbolico, la discesa agli inferi di cui parlavamo nel paragrafo precedente, è ravvisabile in tale esperienza traumatica. Questo uomo nuovo, che accoglie in sé anche il principio femminile, la lotta contro la sterilità, il bisogno di tornare fertile, viene alla luce nel capitolo XV attraverso un procedimento graduale.

1° stadio, la morte di Bloom: alcune donne lo accusano di “approcci sessuali” non sempre appropriati. Lo abbiamo visto, durante l’intero romanzo, come Bloom non sia esente da scappatelle, da desideri sessuali, da tentativi di seduzione e da comportamenti al limite (la grande scena della masturbazione). L’udienza, viste le prove portate,  si conclude con la sua condanna a morte e con una simbolica impiccagione: «Chi vuole impiccare Giuda Iscariota» [XV, 680];

2° stadio, la regalità di Bloom: questa morte produce, quindi, una rinascita – facendoci pensare che anche Joyce avesse ben presente Il ramo d’oro di Frazer e i suoi miti sulla morte e fertilità – e Bloom, infatti, simbolicamente impiccato, come ebreo, come traditore e capro espiatorio, rinasce Re. Nelle pagine seguenti la fantasia di Joyce si scatena, rappresentandoci una serie di processioni, cortei che appunto producono una sensazione di rovesciamento carnevalesco, «Alle loro spalle marciano gilde, corporazioni e milizie con vessilli al vento: bottai, ornitologi, costruttori di mulini, promotori pubblicitari di giornali, giovani di studio legale, massaggiatori, vinificatori […].» [XV, 690],  di cui Bloom appunto diventa il sovrano: «Sotto un arco di trionfo appare Bloom, a capo scoperto, in un manto di velluto cremisi bordato di ermellino nelle mani la verga di Saint Edward, orbe e scettro con la colomba» [XV, 691]. Il narratore si premura poi di far pronunciare a Bloom il suo programma politico,  «Parole nuove al posto di quelle vecchie. […] Amnistia generale, carnevale settimanale con licenza di maschera, bonus per tutti, esperanto come fratellanza universale» [XV, 700-701], con riflessioni che si adattano alla perfezione  a definire cosa sia l’Ulisse, come se il protagonista del romanzo pensasse e immaginasse il romanzo stesso di cui è parte, come se lo contenesse dentro di sé. L’Ulisse, lo abbiamo sostenuto nel primo appunto, nasce dal rovesciamento del romanzo e, nel momento in cui ne parodizza le forme e le strutture, le rinnova e le ricrea.

3° stadio,  maschile femminile: le parole nuove al posto di quelle vecchie chiariscono perfettamente tale tensione di novità, la scelta di una nuova lingua, di un uomo nuovo, che producono quindi il Bloom “al femminile” e che gli/le donano la ricercata fecondità ( il parto degli 8 figli). Bloom potrebbe essere l’ambiguo essere do cui si parla in Gn 1,27: «Dio creò l’uomo a sua immagine;/a immagine di Dio lo creò/maschio e femmina li creò», questa compartecipazione del maschio e della femmina ci riporta alla memoria ancora una volta The Waste land, che è forse il vero testo con cui Joyce involontariamente dialoga. La figura di Tiresia è una delle immagini più forti del poema di Eliot, l’indovino con le mammelle vizze nei versi del poema, l’uomo nuovo uscito dalla esperienza della guerra e del dopoguerra. Si raforza ancora di più in questo modo l’idea che il XV dell’Ulisse dialoghi con l’XI dell’Odissea, in quanto nella sua discesa infera Ulisse incontra proprio Tiresia, l’indovino. I legami tra questi due testi, quindi, sono molto stretti. In quest’ottica Bloom, e Tiresia anche, rappresentano una sorta di nuova sapienza: non annunciano un nuovo stravolto, ma un uomo rinnovato, non il super uomo di matrice nicciana che da lì a poco avrebbe infestato l’Europa portandola al baratro, ma un essere umano colmo di pietas che sa il dolore, il riso, che conosce e il principio maschie e quello femminile, che ha veduto il mondo e ne conosce i segreti (forse i personaggi più vicini a Bloom sono di giganti dei poemi eroicomici Morgante, Margutte, Gargantua e Pantagruel). Bloom è un uomo buono, e proprio la sua bontà lo porterà a salvare dal pestaggio il povero Stephen e a cercare con lui un nuovo rapporto filiale.

RUDY. Abbiamo sostenuto che il capitolo XV, nella nostra ipotesi,  dovrebbe essere letto come una discesa negli inferi, come il passaggio obbligato prima del ritorno a casa. Il canto XI dell’Odissea vedeva come apice l’incontro da Ulisse e la madre morta: è un finale patetico e profondo, che tocca corde intime dell’eroe, che non lascia indifferenti noi lettori; Ulisse deve passare da quella morte, deve provare su di sé il sentimento di orfanità. Nel capitolo XV dell’Ulisse accade qualcosa di simile: nelle ultime righe, quando ormai tutto sembra avviarsi verso la fine, con il baccano grottesco della rissa, con i  fumi dell’alcool a dominare la scena, dopo aver visto scene di sesso, assistito a battute salaci, essere stati testimoni dei fenomeni più estravaganti, la narrazione ha una improvvisa e rapida frenata, un rallentamento improvviso, una contemplazione lirica, dove per una volta non sentiamo nessun intento ironico, nessuna citazione intratestuale, semplicemente il narratore ci invita a guardare un’ultima presenza: «([…]. Contro il muro buio appare lentamente una figura, un fatato ragazzino di undici anni, un figlio sostituito, rapito, in completo di Eton […]-) BLOOM (stupefatto, chiama in maniera non udibile.) Rudy!. RUDY (Guarda fisso senza vedere negli occhi di Bloom e continua a leggere, a baciare, a sorridere. Ha un delicato viso color malva. Sul completo ha bottino di diamante e rubino. […]. Un agnellino bianco fa capolino dalla tasca del suo panciotto)» [XV, 827-828]. L’apparizione del figlio morto modifica il rumore e il chiasso di tutto il capitolo, come se il “resto” fosse stato scritto per produrre questo singolo istante, quasi che queste 200 pagine di invenzioni pirotecniche, di giochi di parole, di citazioni fossero state prodotte per nascondere il dolore, profondo, negato e senza parole (Rudy non parla, Bloom parla in modo non udibile) di questa morte. La letteratura, la festa della lingua, e l’invenzione che può dire ogni cosa si arrestano al silenzio di grazia di questo piccolo bambino di 11 anni morto, sacrificato come l’agnello. Forse in questo enigmatico silenzio del bambino si nasconde il segreto del romanzo, il nucleo non detto della narrazione; qualcosa di rimosso ed eccentrico, che non riusciamo ancora a comprendere fino in fondo: un lutto, una mancanza che segnano sin dall’inizio la gioiosa complessità della macchina romanzesca che Joyce ha creato.

In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 8 [XIII-XIV, 517-632]

SEME /PADRE. Dopo il clamore della fuga con cui si chiude il capitolo XII, il tredicesimo episodio del romanzo si apre con una descrizione di calma: «La sera estiva aveva cominciato ad avviluppare il mondo nel suo misterioso abbraccio. Lontano ad ovest il sole stava tramontando e l’ultimo bagliore di fin troppo fuggevole giorno si attardava amorevolmente su mare e spiaggia […], sulla quieta chiesa da dove usciva a rompere di quando in quando il silenzio la voce della preghiera a colei che nella sua pura radiosità è un faro costante del cuore umano sballottato nella tempesta, Maria, la stella del mare» [XIII, 517].  In questa scena descritta con cura, il sole che tramonta, la spiaggia, gli scogli, il suono delle onde del mare alternato al suono delle litanie della chiesa dirimpetto, compaiono via via con maggiore precisione alcune donne con i loro bambini che giocano, le figure femminili vengono descritte nella loro quotidianità; il narratore, infine, concentra la sua attenzione su Gerty MacDowell: di lei abbiamo una sommaria  descrizione fisica, importata ad una sorta di stilnovismo: «il pallore creo del viso», la «bocca bocciolo di rosa», le mani di «alabastro» [XIII, 520]. A questo ritratto si accompagna una descrizione, condotta tramite indiretto libero, del suo animo altrettanto “libresco”, poetico: Gerty, che si strugge per l’attesa dell’amore, novella Bovary, spera nell’amore romantico dei libri, e sulla spiaggia si lascia andare alle sue fantasticherie romantiche, nutrite dell’apparire sul molo di un uomo, che la guarda e la osserva. Nel più che perfetto (così perfetto da sembrare ironica presa in giro) topos dell’amor de lonh, Gerty si trova a sognare e a immaginare questo uomo: «Dagli occhi bruni e dal pallido viso intellettuale aveva capito subito che era un forestiero, […]. Era in lutto stretto, questo lo vedeva, e sul suo viso si leggeva la storia di un dolore ossessivo. Avrebbe dato chissà cosa per sapere cos’era, questo dolore. […]. Era lui che importava, e lei si sentiva il viso invaso della gioia perché lo voleva, perché avvertiva  istintivamente che era diverso da tutti gli altri» [XIII, 533].

Lo straniero che la osserva fa nascere in lei in desiderio di mostrarsi e di sedurlo a distanza, inizia quindi uno gioco di sguardi e di eccitazione, che culmina nella scena dei fuochi d’artificio  quando Gerty atteggia il proprio corpo in modo che lo straniero le veda «tutto il resto, mutandoni di mussola, il tessuto che accarezza la pelle, meglio di quelli altezza sottoveste, […], e lei glielo permise e vide che lui vedeva […] e lei stava tremando in tutte le membra […] ma (lei) non se ne vergognò e lui nemmeno di guardare così in quel modo indecente» [XIII, 544]. Una scena di desiderio e di seduzione, conclusa da una immagine, «le loro anime si incontrarono in un ultimo sguardo indugiante e gli occhi che le arrivarono al cuore, pieni di uno strano scintillio, fluttuarono sul suo dolce viso in fiore» [XIII, 545],  romantica al limite del manierismo, che chiude la prima porzione del capitolo per lasciare spazio al punto di vista dello straniero a cui Gerty si è donata e ha mostrato il proprio corpo.

L’uomo, che noi abbiamo riconosciuto per alcuni indizi descrittivi, è Bloom e il suo apparire produce netto cambio stilistico. Ne è un esempio la descrizione di Gerty: «Camminava con una certa tranquilla dignità come tipico di lei ma con cautela e molto lentamente perché… perché Gerty MacDowell era… Scarpe strette? No. È zoppa! Oh» [ibidem]. La scelta joyciana di rivelarci, solo a questo punto della narrazione, la malformazione di Gerty serve a ridisegnare completamente le impressioni che avevamo avuto nella lettura delle pagine precedenti, e ad abbassare, a rendere più terreste e meno poetico, ciò che ci era sembrato tale, anche perché filtrato dagli occhi della ragazza. Osservata dalla prospettiva di Bloom abbiamo un’altra idea di quello che è successo; Bloom ci descrive il suo atto di voyeurismo come qualcosa di basso e terreno, che si oppone alla aerea bellezza di Gerty. Ciò che nella ragazza era gioco di sguardi, seduzione, amore, desiderio che trascende le distanze, per Bloom è un semplice atto di fisiologia: «Per fortuna quando si è esibita non lo sapevo. Un diavoletto in calore comunque» [XIII, 546], «Secondo me quella là ha capito che io. Quando ci si sente così capita spesso, quello che si sente. Chissà se le sono piaciuto» [XIII, 547]. Tutta la poesia di Gerty, in cui anche il desiderio e la malizia sessuale sono promesse amorose, viene da Bloom ridotta a puro elemento organico: «Il signor Bloom con mano cauta si aggiustò la camicia umidiccia. Oh signore, quella diavoletta zoppa! Comincia a dare un senso di freddo e di appiccicoso. L’effetto non è piacevole, dopo. D’altra parte bisogna più liberarsene in qualche modo». [XIII, 549]. L’idea dell’umidiccio e della spiacevolezza dello sperma torna in altre occasioni lungo il capitolo, «questo umidiccio è molto sgradevole» [XIII, 553], come se Joyce volesse sottolineare il dato solamente materiale dell’atto. In realtà la masturbazione di Bloom è legata al possibile, presunto, tradimento di Molly, evocato con l’orologio da taschino fermo: «Veramente strana la storia del mio orologio. Quelli da polso vanno sempre male. Chissà se c’è magari un influsso magnetico con la persona, perché era circa l’ora che lui. Sì, credo, immediatamente» [ibidem]. Nella ridda dei pensieri di Bloom in cui spesso ci si perde, troviamo/tornano alcuni temi: il tradimento (come abbiamo già visto), la razza e l’esilio, «che ci ha portato fuori della terra d’Egitto e nella casa della schiavitù» [XIII, 561], ma anche e sopratutto il  concetto dell’identità, «credi di aver tagliato la corda e ti imbatti in te stesso» [XIII, 558].

L’atto che Bloom compie più che masturbatorio è onanistico. Solitamente si dice che Onan disperda il proprio seme per terra perché non vuole avere figli, nella realtà nel libro della Genesi si legge diversamente: «Allora Giuda disse a Onan: “Unisciti alla moglie del fratello, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità per il fratello”. Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva per terra, per non dare una posterità al fratello» (Gn 36, 8-9). La scelta di Onan non è una scelta di semplice sterilità, ma è una scelta di identità: i figli generati dal suo atto non sarebbero stati considerati suoi, ma di suo fratello. Per questo motivo decide di disperdere il suo seme per terra. Bloom vive una situazione simile, perduto Rudy, sta cercando un figlio, o meglio sta cercando di essere un padre, perché l’orfanità produce appunto al perdita della propria identità, il non sapere chi si è. Non è un caso infatti che nelle pagine finali del cap XIIIsi legga un indovinello: «IO.// […] Chinarmi, vedere la mia faccia lì dentro, specchio buio, alitargli sopra, si increspa. […] . SONO. UN.» [XIII, 565]. Cosa è Bloom? Cosa desidera essere? Il tema dell’identità che era divenuto centrale nel capitolo precedente, il XII, in contrapposizione con il Cittadino, qui si pone in modo drammatico. IO. SONO.UN., questa frase anche grammaticalmente manca di predicato nominale, è una copula sterile, orfana: si apre a un bisogno che non può essere in alcun modo definito.

LINGUA/MADRE. La chiusa del capitolo XIII con il suo IO. SONO. UN potrebbe suonare meno stravagante se, seguendo la suggestione di Terrinoni, la leggessimo in inglese «I. AM. A» (Terrironi infatti non traduce questo indovinello). A questo punto potremmo provare proprio come in un rebus a  dividere le lettere diversamente, ad esempio scrivendo “I A MA” ovvero “io una ma(dre)”: tale ipotesi solutori si collegherebbe alla fantasia dell’uomo “incinto”, che aleggia nel romanzo dall’inizio, ma che abbiamo già trovata citata esplicitamente nella discussione della biblioteca [IX, 324: il riferimento a Calandrino e al Boccaccio]. 

Tale suggestione potrebbe aiutarci a leggere uno dei capitoli complessi dell’intero romanzo, il capitolo XIV, il quale rappresenta un vero tour de force di scrittura, oltre ad essere una sfida improba per i traduttori: in questo capitolo Joyce attraversa, usa e parodizza tutti i tipi di inglese scritto – da quello più antico fino a quello in uso nella sua contemporaneità – fino a trasformarlo in un suono privo di ogni contatto con la realtà storica del tempo, arrivando a descrivere una sorta di stato onirico del linguaggio.

Il capitolo si svolge tutto all’interno della sala d’attesa di un ospedale, dove Bloom è andato a trovare una donna che sta per partorire: ancora una volta, quindi, il tema della lingua e il tema della nascita si intrecciano, come si intrecciano il tema della identità e della sterilità (sopratutto per quanto riguarda il tema della contraccezione che in un certo senso riprende la metafora onanista di cap XIII). C’è un legame profondo e fondamentale tra questo capitolo e due precedenti. Se l’Ulisse è il romanzo di una nuova umanità, nata dalle ceneri della prima guerra, è necessario che questo uomo nuovo rinneghi l’uomo vecchio (Paolo nella lettera agli Efesini): il gesto scatologico e corporale di Bloom, la sua masturbazione e i pensieri che ne conseguono, sono un passaggio di svuotamento di sé, del farsi vuoto e pronto ad essere riempito. Questo è il primo passaggio, ma non è sufficiente. L’identità, soprattutto per uno scrittore, sta tutta nella lingua, bisogna, quindi, che anche la lingua vecchia venga sostituita da una lingua nuova. Così il capitolo XIV è una graduale, lenta e testarda rinuncia a quella lingua che è stata patrimonio e tesoro di Joyce, del quale l’Ulisse rappresenta l’apice e la fine. Se è vero che «il testo è una lingua in azione» (definizione geniale di Halliday) nelle pagine del capitolo XIV ne abbiamo una ampia dimostrazione: leggendo cap XIV vediamo la lingua madre di Joyce nascere, formarsi e perdersi, e cambiare, diventare altra, perdere lentamente le sue coordinate e diventare infine qualcosa di irriconoscibile, che annuncia la nascita di un uomo nuovo, di un nuovo essere umano: «Tu sei, dichiaro solennemente, in assoluto il più notevole dei progenitori in questa prolissa onnicomprensiva quanto mai farraginosa cronaca. Straordianrio! Dentro di lei risiedeva una Diostrutturata Diocreata preformata possibilità che tu hai fecondato con il tuo pizzico di azione virile» [XIV, 625].

Si rinuncia a una lingua per trovare una nuova lingua, in cui il dato grammaticale deve essere abbandonato per quello più marcatamente sonoro; come già accennato nel capitolo XI, è il significante a dominare. A questo punto della lettura è chiaro che nell’Ulisse la varietà, l’eterogeneità dei capitoli, dei personaggi e degli stili è lungi da essere percepita come una perdita di centralità, è ricerca di una nuova matrice, di un nuovo ordine e sintassi: «Ogni passo, ogni frase, ogni frammento di frase diventa comprensibile solo in rapporto ad altro. L’Ulysses bisogna leggerlo come una partitura; si potrebbe stamparlo così. Per capire davvero bisognerebbe avere presente a ogni frase tutta l’opera – cosa che rasenta l’impossibile» (Curtius, James Joyce e il suo “Ulysses”).

In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 7 [XII, 443-515]

UNO STRANO “IO”. L’incipit del capitolo XII ci lascia perplessi: «Ero giusto lì a fare quattro chiacchiere con il vecchio Troy della polizia metropolitana di Dublino sull’angolo di Arbour Hill e mi prenda un colpo se non arriva un cazzo di spazzacamino che quasi mi ficca il suo arnese nell’occhio» [XII, 443].  Poche pagine dopo leggiamo: «Sia come sia Terry ha portato le tre pinte offerte da Joe, e cazzarola la vista mi è quasi cascata dagli oggi quando ho visto tirar fuori un testone. Ohè, preciso come ve lo sto raccontando. Una graziosa sovrana» [XII, 451].

Chi è questo “io” che parla? Perché ovviamente è differente dall’io che avevamo descritto negli appunti precedenti, usato da Joyce per metterci in collegamento diretto, senza mediazioni grammaticali, con la mente dei suoi personaggi: quel passaggio dalla terza persona alla prima, che ad esempio abbiamo notato il capitolo III nei riguardi di Stephen, e nel capitolo VIII con Bloom. L’ “io”, che apre cap XII,  è completamente diverso, tramite esso viene narrato il capitolo, che riprende l’episodio di Polifemo. Questo “io” è a tutti gli effetti il narratore, colui che ci racconta, dal suo punto di vista, con la sua particolare lingua, attraverso i suoi particolari pregiudizi,  i fatti. Quali informazioni abbiamo su lui?

Sappiamo che sta bevendo con alcuni amici, sappiamo che ha qualche pregiudizio razziale (verso l’ebreo Bloom), sappiamo che per caso è presente alla discussione tra il Cittadino e Bloom, null’altro. Non conosciamo il suo nome, ignoriamo se in qualche modo lo abbiamo già visto nelle pieghe del racconto dell’Ulisse. Chiediamoci ora chi è il narratore, che ci ha accompagnato sino alle soglie del cap. XII: il narratore dell’Ulisse è la tipica terza persona onnisciente, “egli” vede, sente ogni cosa, è dappertutto, ed è soprattutto anonimo.

Joyce, che come abbiamo più volte sottolineato gioca a disarticolare o a portare al limite la forma romanzo, sembra voler suggerire che il narratore, questo vettore narrativo, questa funzione semiotica, che la moderna arte del romanzo avverte come desueta, esca – quindi – da una semplice funzionalità testuale e sia personaggio, così come lo sono Bloom, Stephen e la miriade di attori che popolano il testo; Joyce fa in modo così, che anche l’anonimo narratore, onnisciente e costretto sempre a dire “egli”, possa dire “io”.

Abbiamo accennato prima che nel XII si riscrive l’episodio di Polifemo, un episodio così famoso da essere conosciuto anche da chi non ha mai letto una riga del poema omerico; proverbiale, ad esempio, è divenuto il motto astuto con cui Ulisse si prende gioco del gigante, dichiarando di chiamarsi “nessuno”. In questo capitolo del romanzo, mentre la rocambolesca fuga dall’isola [Odissea IX, 471 e seguenti] viene rappresentata dalla partenza precipitosa in carrozza di Bloom: «Il biancolatte delfino scosse la criniera e, salito nella dorata poppa, il nocchiero spiegò la vela a gonfiarsi nel vento e prese spavaldamente il largo con la velatura al completo» [XII, 510], con il Cittadino, simile a Polifemo (Odissea IX, 537-538), che rabbioso scaglia in strada/mare massi per colpire la carrozza/nave di Bloom/Ulisse: «’zzarola, lui ha tirato indietro la mano e poi, fatta una bella estensione, ha lanciato un oggetto. Per grazia di Dio aveva il sole negli occhi altrimenti quello là lo faceva secco» [XII, 513], manca completamente qualsiasi riferimento a Odissea IX, 366: «Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano». La battuta non viene mai pronunciata da nessuno dei personaggi; né Bloom e né il Cittadino si definiscono così: tutti portano il proprio nome, lo dichiarano. L’unico a tacere le proprie generalità, l’unico di cui ignoriamo ogni cosa, del perché sia lì, o dovrà andrà poi, è l’Io narrante. Joyce adombra in lui, in questa figura fuggevole e cangiante, in questa struttura narrativa dallo statuto incerto (esiste veramente il narratore?  O rappresenta una mediazione tra l’autore e il protagonista?)  l’essere nessuno, outis greco, il no-qualcuno, il no-uno che si intravede nella frase omerica. Questa intuizione di Joyce ci rivela anche un meccanismo molto interessante del poema omerico: il narratore dell’Odissea è onnisciente, a lui è affidata la narrazione della Telemachia e del nostos ad Itaca; il poema, però, possiede una narrazione dentro la narrazione, un testo dentro il testo, ovvero le avventure di Ulisse raccontate da lui stesso: il centro narrativo dell’Odissea sono i racconti che Ulisse pronuncia durante il banchetto. Già nel testo epico, quindi, assistiamo una strana forma di ibridazione tra il narratore e il personaggio (Ulisse è il protagonista delle poema, ma è anche il protagonista delle storie che racconta), che Joyce riprende: tramite questo “io” narrante anonimo e partecipe, egli pone nuovamente uno dei temi centrali del romanzo ovvero quello dell’identità.

IDENTITÀ.  Una lettura meno frettolosa del libro nono dell’Odissea potrebbe far comprendere come il vero nodo narrativo non stia tanto nell’ammissione di Ulisse di essere/chiamarsi “nessuno”, quando nello scambio di battute tra Polifemo e l’eroe greco ormai in fuga. Solitamente questa seconda parte è lasciata in disparte nonostante a) sia importante per comprendere il perché del resto del peregrinare di Ulisse; b) questa scelta riduca il ciclope a un povero idiota, battuto e vinto dalla intelligenza scaltra di Odisseo. Siamo in un certo senso vittime di un sentimento votato alla semplificazione: Odisseo =astuzia e Polifemo= stoltezza. In realtà le sfumature psicologiche sono molto più ampie, leggendo il libro IX dell’Odissea veniamo a sapere che un indovino aveva profetizzato a Polifemo l’incontro con Ulisse e il suo accecamento. Il gigante lo racconta con queste parole: «Egli mi disse che un giorno tutto questo si sarebbe compiuto/d’essere privato di vista per mano di Odisseo./ Ma io ho sempre aspettato che arrivasse qui un uomo/grande e bello, vestito di grande vigore:/invece uno che è piccolo, da nulla e debole, ora/ mi ha orbato dell’occhio, dopo avermi vinto con il vino» [Odissea IX, 511-514]. Odisseo dopo i suoi viaggi è “piccolo”, un uomo “da nulla e debole”, senza forza e vigore. Ulisse inganna Polifemo non perché più astuto, ma perché Polifemo condivide i valori arcaici dell’Iliade, dove forza coraggio e vigore definiscono gli uomini e gli avversari. Odisseo è invece l’uomo che non è più nulla, l’uomo complicato, moderno, che sfugge a una qualsiasi definizione.

Il cap XII – proprio nello scontro dialettico tra il Cittadino e Bloom – ha come centro la domanda “chi   è Leopold Bloom?”, un tema, come abbiamo visto, già presente nel capitolo VIII; quest’uomo così sfuggente, solitario, silenzioso, trafficone, che viene tradito e tradisce, sempre alle prese con qualche pensiero, mostra in queste pagine un altro aspetto di sé. Se il Cittadino rappresenta tutto ciò che in una parola  potremmo definire nazionalistico, Bloom si descrive come apolide, sradicato, senza terra, senza patria: Bloom porta su di sé la stimma dell’ebreo errante: «Eccolo lì, l’ebreo! Tutto per sé. Furbo come un ratto di latrina» [XII, 509], vive con una idea di stato completamente nuova: «Una nazione sono le stesse persone che vivono nello stesso posto» [XII, 497], è straniero in una patria che sente sua, ma che lo odia: «Sono nato qui. L’Irlanda» [ibidem], «E appartengo a una razza […] che è odiata e perseguitata. Anche adesso. In questo momento. In questo preciso istante» [XII, 498; nel capitolo è un coacervo di pregiudizi antisemiti, espressi di volta il volta dall’Io narrante e dal Cittadino]. Bloom  è veramente un personaggio moderno, portatore di un concetto di uomo, nato dalle ceneri della prima guerra mondiale; la rottura del paradigma umanistico, avvenuta lungo le trincee del conflitto mondiale, dà inizio a quello stravolgimento dell’umano che sarà centrale nella letteratura tra le due guerra Eliot, Hemingway, Woolf. Il Cittadino e gli altri suo amici oppongono a Bloom una idea stantia e vecchia di nazione, i cui rigurgiti in parte arrivano fino a noi: «Non vogliamo più stranieri a casa nostra» [XII, 486]; all’interno di questo paradigma vecchio e passato, come leggere altrimenti le infinite elencazioni di eroi mitologici, di luoghi, di avvenimenti pseudo storici che troviamo nel capitolo, essi non riescono a definire Bloom. Egli più che un nessuno è un no-uno, qualcosa di non riconducibile all’unità (come non lo è il romanzo oramai frantumato in mille rivoli di cui è protagonista). Bloom è veramente l’uomo complicato e multiforme, così simile all’Odisseo che Omero decide di cantare nel suo poema; egli è figura della complessità, della impossibilità di essere riassunto, di essere definito: «Ma quello là è ebreo o gentile o cattolico romano o protestante o cosa diavolo è? […]. Addirittura: Chi è? Senza offesa» [XII, 505].

“Chi è?”. La domanda di identità ritorna e trova risposta alla fine del capitolo, quando appunto, Bloom fugge dal Cittadino come Ulisse da Polifemo, ma se nell’episodio omerico è Ulisse a dichiarare la sua vera identità, qui assistiamo a una blasfema epifania, che mescola l’episodio veterotestamentario del carro di Elia, e la trasfigurazione sul Tabor di Cristo, narrata dai Vangeli, fornendo a Bloom un connotato cristologico tale da renderlo ancora più ambiguo e sfuggente: «Ed essi scorsero Lui, proprio Lui, ben Bloom Elia, tra nugoli di angeli ascendere alla gloria del fulgore a un angolo di quarantacinque gradi sopra Donohoe in Little Green Street» [XII, 515]

In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 6 [X-XI, 341-442]

di Demetrio Paolin

16 GIUGNO 1904. Il capitolo X dell’Ulisse è una sorta di miniatura di romanzo, suddiviso in 19 sezioni, in nelle quali ogni  fatto, episodio o accadimento raccontato è un “a sé stante”, che ha come uno collante il “ritornare” di  non alcuni personaggi e luoghi. A dominare le pagine è Dublino: avevamo già visto, nel capitolo VII, che l’apparire della città aveva prodotto una sorta di frantumazione della narrazione in tanti brevi microracconti e, quindi, non ci stupisce che nel cap X si assista a qualcosa di simile. Un’ ulteriore notazione da fare è la contrapposizione ossimorica dei capitolo IX e X, tra chiuso/aperto e uno/molteplice. Nel capitolo IX l’azione avveniva al chiuso (la biblioteca) e aveva un unico protagonista principale (Stephen Dedalus), mentre nel successivo le diverse narrazioni avvengono tutte all’aperto (le vie e strade, l’entrate dei negozi di Dublino) e la scena è dominata da una brulicante umanità. 

A tener legati i diciannove spezzoni, quindi, sono alcuni personaggi, che ricorsivamente compaiono nelle diverse sequenze narrative, in tal  modo Joyce introduce una riflessione che riguarda il tempo e il tempo d/nel romanzo. La particolarità del capitolo non è tanto data dalla ricorsività del personaggio in sé, ma dal tentativo dell’autore di far apparire le diverse sequenze come sincroniche. Dal punto di vista strutturale, il capitolo è organizzato con un prologo e un epilogo, due brani caratterizzati da una lunghezza maggiore degli altri,  in cui vengono raccontate le passeggiate di Padre Conmee [X,341-349] e il viceré [X,385 -389]; le due sequenze narrative forniscono la cornice ai diversi episodi, in cui incontriamo tra gli altri Stephen, sua sorella e suo padre, Molly, Furia Boylan, Leopold Bloom etc etc. Queste prime due sequenze sono costruite a chirale, ovvero speculari –  i due protagonisti rappresentano i poteri che governano lo stato (la Chiesa e la Corona) -, ma non sovrapponibili – in quanto a) il padre Conmee si muove a piedi, mentre il viceré si muove in carrozza; b) padre Conmee è attivo, saluta, parla, pensa, niente di tutto questo è ravvisabile nella passeggiata del rappresentate regio.

Il capitolo X, nei diversi schemi dell’autore,  è pensato come una trasposizione dell’episodio di Scilla e Cariddi, due mostruosità marine che dominano il racconto di Ulisse; è abbastanza facile vedere nelle due sequenze la figura dei mostri e quindi il rapporto di vicinanza (strutturale) tra l’episodio omerico e la riscrittura di Joyce, ma il cap X rappresenta qualcosa in più.

Come abbiamo detto in precedenza,  alcuni personaggi tornano spesso nelle sequenze; nella volontà compositiva dell’autore la loro presenza non vuole mostrare frantumazione, ma istantaneità. L’apparire “quasi” incongruo di un personaggio in una scena ci riporta alla mente ciò che abbiamo letto solo poche pagine prima, e ci aiuta ad orientarci temporalmente nella narrazione, suggerendoci il fatto di assistere a scena che sta avvenendo nell’identico istante di un’altra.

Il «marinaio con una gamba sola, che avanzava, come girando sui cardini con pigri strattoni delle stampelle, ringhiò alcune note» [X, 341] che il padre Conmee all’inizio della sua camminata è lo stesso «marinaio con una gamba sola» che «si stampellò oltre l’angolo dei MacConnel, costeggiando il carrettino dei gelati Rabaiotti»[X, 345]. Oppure altro esempio ancora più chiaro delle intenzioni dell’autore: «Un giovanotto rosso in faccia emerse da un varco in una siepe seguito da una giovane con in mano un mazzo di ondeggianti margherite di campo. Il giovane si precipitò a togliersi il cappello: la giovane si precipitò a chinarsi e con lenta cura si staccò dalla leggera gonna un ramoscello che vi si era appiccicato» [X, 348], la ragazza che torna descritta con le medesime parole e con il medesimo atteggiamento: «La giovane con lenta cura si stacco dalla leggera gonna un ramoscello che vi si era appiccicato» [X, 357]. 

Joyce trasforma questi personaggi, che appaino e scompaiono nel giro di poche righe dei diversi episodi, dei “marcatori di tempo” a dimostrazione di come – pur nello scorrere delle pagine e della narrazione – l’episodio di p.348 e quello di p.357 avvengono nel medesimo istante. Se dovessimo fornire qui una breve fenomenologia della lettura dei romanzo dovremmo dare per certo che per ogni lettore esiste un ordine dato della narrazione, il quale ci viene fornito una pagina dopo l’altra. Ciò che accade nella pagina ci suggerisce e, in alcuni casi, ci impone il  modo in cui gli eventi si organizzano e nel tempo e nello spazio. Joyce cerca, nel cap X, di fare qualcosa di nuovo: la simultaneità. Una caratteristica, questa sì, completamente estravagante rispetto alla forma romanzo così come era/è strutturata – le pagine,  l’ordine delle parole, il susseguirsi degli eventi nelle pagine e nelle parole.

Il capitolo X è il tentativo di modificare questa concezione del tempo, una modificazione, che riprende l’idea della narrazione ad anelli tipica dell’epica omerica, ma la parcellizza nelle piccole ricorrenze, frasi e azioni che devono dare l’illusione di avvenire nello stesso momento. La ragazza di p. 348 e quella di p.357 non sono solo lo stesso personaggio, ma sono lo stesso personaggio che nello stesso momento compie la medesima identica azione, annullando così, o tentando così di annullare, il tempo sulla pagina. Questa somma di “piccole” contemporaneità produce, secondo Joyce, il tempo reale narrato del romanzo; l’accumulo di queste azioni sincroniche, che avvengono tutte nello stesso momento e che producono, quindi, una rottura del tempo della narrazione, ci fornirà infine l’esatto tempo in cui il romanzo avviene. Non credo, quindi, che sia un caso che nel capitolo X sveli il “quando” del romanzo: «La signorina Dunne ticchettò sulla tastiera: 16 giugno 1904» [X, 355].

SIGNIFICATO Vs SIGNIFICANTE. L’opera di decostruzione del genere romanzo (cap X,  il tempo) iniziata da Joyce continua nel capitolo XI (le parole). Nelle prime pagine del capitolo [XI, 391-394] vengono elencate una dopo l’altra frasi, slegate le une della altre,  che saranno riprese nel capitolo a mo’ di refrain musicali. Il capitolo XI è costruito come un fuga, in cui alcuni temi vengono ripresi, variati e riproposti. Dal punto di vista tematico l’undicesimo è un capitolo centrale, perché è ambientato nelle ore del giorno, in cui Bloom sa che sua moglie incontrerà il proprio amante (il “toc toc” della porta che si ripete ossessivamente lungo tutto il capitolo ne è una prova testuale), ed è per questo motivo che Leopold girovaga per la città, come per fuggire e scacciare dalla sua mente quel nero presentimento.

Il tema della musica, quindi, in Ulisse XI, si mescola con il tema del sesso, e con la sua congerie di doppi sensi: i vari protagonisti cantano di amori traditi, disperati, in cui la dimensione del tradimento e dell’atto sessuale è sempre presente: «Suonarla come uno strumento. Soffio di labbro. Corpo di donna bianca, flauto vivente. Soffia con dolcezza. Forte. Tre buchi, tutte le donne. Le dea non ha visto. […]. Molly, quel suonatore di organetto» [XI, 434].

Il capitolo è  una riscrittura del tema delle sirene che più volte vengono citate nel corso di queste pagine. Per tale motivo il dato uditivo è dominante nel corso dell’intero capitolo, tanto che una elencazione di ciò che attiene al canto, al suono, al rumore sarebbe impossibile, così come l’intero armamentario di onomatopee, allitterazioni, giochi di parole, rime che sono presenti nell’originale, che ovviamente e in parte si perdono nel tour de force dei traduttori. 

Se il tema del cap XI è il canto, e il canto è poesia,  non stupisce, dopo averlo incontrato nel capitolo VIII (p.281) e nuovamente in X (p.382), rivedere in queste pagine il giovane cieco, incontrato da Bloom durante il suo girovagare: è lui infatti ad accordare il pianoforte, le cui note risuoneranno per tutto il capitolo: «“È stato qui l’accordatore oggi,” rispose la signorina Douce, “ad accordarlo per il concerto dei signori, e non ho mai sentito un esecutore tanto squisito”.

“Ah sì?”

“Vero, signorina Kennedy? Il vero classico, sa. E cieco, per di più, poverino. Neanche anche vent’anni sono sicura che aveva”.» [XI, 402].

Se nutrivamo ancora qualche dubbio sulla possibilità che Bloom avesse incontrato per le vie di Dublino il cieco poeta dell’Odissea, l’episodio lo dissipa; nel capitolo, dove è maggiore la tensione musicale del romanzo, in cui anzi la trama stessa del romanzo diventa una serie di voci che si ricorrono come in un componimento musicale, l’incontro la presenza di Omero ne suggerisce la centralità e un atteggiamento nuovo e differente di Joyce rispetto alla materia della sua narrazione. Nel cap XI la lingua del romanzo, a partire dal prologo, che la riduce a una serie di enunciati che si ricorreranno nel corso del romanzo, si trasforma in semplice suono, melodia particolare, criptica e incomprensibile come nelle pagine finali, dove i fatti, gli accadimenti perdono di senso e di significato; in cui i dati di trama vengono meno e tutto si scioglie nella cantabilità di una lingua particolare (potrebbe adombrarsi in queste pagine il primo germe di Finnegans wake?). E, infatti, non è casuale come nuovamente –  nelle battute finali del capitolo XI – appaia il giovanotto cieco: «Tic. Un non vedente giovincello era in piedi sulla soglia. Non vedeva bronzo. Non vedeva ora. Né Ben né Bob né Tom né Sim né George né i bocc né Rechie né Pat. Eh eh eh eh ei non ci veeva. Siidbloom, visciidbloom scrutava le ultime parole» [XI, 442]. 

Se capitolo X Joyce modificava il modo di intendere il tempo della narrazione, forzando lo strumento del romanzo nel riprodurre la simultaneità degli eventi della vita, in questa occasione viene messo in crisi il significato delle parole; nel capitolo XI ciò che conta è il suono fine a stesso (la centralità del significante è così forte, che queste pagine più di altre dovrebbero essere lette in originale): la parola, infatti, perde ogni legame con l’oggetto, che narra, e si fa suono, e il romanzo, o meglio la sua lingua, diviene sempre più simile a un canto, a un suono: la trama, i fatti, i gesti diventano fonemi che si inseguono. Tutto diventa suono: l’amore, il tradimento, la solitudine, la morte, la disperazione, il sesso o la bassa corporalità di Bloom, alle prese con un fastidioso mal di pancia, si tramutano in suono, epitaffio e canto: «Kran kran jran. Buona occas. Arriva. Krandlkrankran. Sono sicuro che è il Borgogna. Sì- Uno, due. Sia il mio epitaffio. Kraaaaa. Scritto. Io ho. Prrtpffrrpiftt. Finito» [XI, 442].

Il destino dell’uomo, quindi, non è altro che una pernacchia, limite estremo dell’umiliazione comica, il punto più basso dell’esistente, il proprio epitaffio, la propria fine.

In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 5 [IX, 287-340]

di Demetrio Paolin

PADRE/FIGLIO. «Un padre […] è un male necessario» [IX,  324], il capitolo IX dell’Ulisse ha luogo nel chiuso della biblioteca; unico, quasi unico se si escludono delle brevi apparizioni di Bloom,  protagonista è Stephen che in queste pagine racconta e mette in scena una grande, traboccante e in parte sconclusionata teoria sull’Amleto di Shakespeare, sulla paternità e sull’essere figli; una riflessione che in parte aveva già affrontato nel corso nel capitolo III, ma che in quel caso si era completamente risolta in un lungo monologo/soliloquio «la voce del mio padre consustanziale» [III, 78]; in queste pagine invece Stephen è protagonista di un dialogo, dalle movenze platoniche, denso, complesso, contraddittorio, scambi di battute, facezie e arguzie che producono con l’addentrarsi della discussione una vera e propria metamorfosi strutturale. Infatti, parlando di Shakespeare e delle sue opere, il testo si trasforma una pièce teatrale [IX, 327-328]. Il tema di queste pagine sta nel tentativo di definire con una certa precisione il rapporto tra padre e figlio come rapporto di identità: «Cosa significa un nome? È ciò che ci chiediamo nell’infanzia quando scriviamo quello che ci vien detto essere il nostro» [IX, 328].

Per sviluppare questo tema, che è appunto una ripresa della riflessione che aveva dominato la prima parte (i primi tre capitoli, quelli che potremmo definire una sorta di Telemachia, dove appunto c’è un figlio in cerca di un padre), Stephen apre una lunga discussione che verte sull’Amleto e su come e in che modo questa opera possa illuminarci sulla vita di Shakespeare. L’ipotesi suggestiva di Stephen consta in un ribaltamento di prospettiva. Shakespeare quando scrive l’Amleto, non immagina se stesso come Amleto, ma immagina lui di essere Amleto padre morto, e immagina che Amneto-figlio morto sia Amleto, il figlio, vivo. «È possibile che quel Shakespeare attore, spettro per assenza e, in veste di sepolto signore di Danimarca, spettro per morte, rivolgendo le proprie parole al nome del suo stesso voglio (se Amneto Shakespeare fosse sopravvissuto sarebbe stato il gemello del principe Amleto), è possibile, chiedo, o probabile che non abbia tratto o previsto la conclusione logica di quelle premesse: tu sei il figlio spossessato, io sono il padre assassinato, tua male è la regina colpevole, Ann Shakespeare, nata Hathaway» [IX, 295].  Notiamo per prima cosa come questa esposizione della trama della Amleto sia così simile alla linea narrativa di Bloom: un uomo che vive una sorta di esistenza purgatoriale, un uomo che è orfano del proprio figlio, e una donna che lo tradisce. Joyce ci vuole forse suggerirci come nell’Ulisse, la centralità dell’Amleto vada oltre il semplice citazionismo (nel capitolo IX le citazioni della tragedia sono moltissime), ma appunto riguardi in qualche modo un “nodo” più profondo. Non ci si inganna nel vedere come questo movimento a triade descritto da Stephen riprenda in parte la storia dell’Odissea. Soggiace in questa storia, quindi, una sorta di continua richiesta di senso, che si dà prima di tutto nell’identità, ma lì non si conclude.

Nell’immaginario di Stephen, Shakespeare è «una miriade di menti» [IX, 321], è l’artista che «tesse e disfa la propria immagine» [IX, 304], che «attraverso lo spettro dell’inquieto padre guarda a noi l’immagine del non vivente figlio» [IX, 305]. Tramite l’analisi dell’Amleto, compiuta da Stephen, Joyce arriva a toccare una vertigine speculativa, che fa di questo dialogo che stiamo leggendo una riflessione altissima, degna di un dialogo platonico, e che iscrive l’Ulisse tra i grandi romanzi-saggio del nostro primo ‘900 (penso a  La Montagna Incantata, a LUomo senza qualità), cioè narrazioni in cui il dato speculativo, di riflessione filosofica, è il motore reale dell’azione drammatica.

L’immaginazione «è un carbone che si va spegnendo, ciò che io ero è ciò che io sono e ciò che in potenza potrei divenire. Così nel futuro, che è fratello del passato,  potrò vedermi mentre siedo qui adesso soltanto per un riflesso di ciò che sarò allora». [ivi]

Il tema del tempo e il tema dell’identità/diversità tra padre e figlio spinge le riflessioni di Dedalus a riprendere il filo delle eresie sulla trinità, che come ricordiamo era una delle tematiche centrali della prima parte.  Stephen ricorda un eresia in cui si sostiene che «il Padre è Egli stesso il Proprio figlio» [IX, 325], ma questa visione possiede una fallacia logica che Dedalus smaschera citando San Tommaso: «se il padre che non ha un figlio è un padre, può essere figlio il figlio che non ha un padre?» [ivi]. Questa interrogazione retorica produce il ragionamento finale di Stephen, ovvero quando Shakespeare «ha scritto l’Amleto non era solamente il padre del proprio figlio ma, non essendo più un figlio, era e si sentiva padre di tutta la stirpe, il padre del suo stesso nonno, il padre del suo nascituro nipote…» [IX, 326]; alla luce di queste parole diventa chiaro perché è centrale interrogarsi sullo scrivere il nome che ci dicono essere il nostro [IX, 327] che riprende la domanda che Bloom si poneva nel capitolo ottavo: «Sono così, io? » [VIII, 265].

Della frase di Bloom evidenzio (in grassetto) lo statuto identitario: la frase potremmo leggerla anche in questo modo “io sono così {come voi siete}?” che rende esplicita l’identità, che si riverbera nel nome, che però ci dicono essere il nostro. Il nome è una convenzione, è esterno alla cosa che nomina, la definisce per assenza, la definisce per ciò che non è. Un figlio è tale quando smette di essere figlio, e diventa padre di suo padre, accudendolo o prendendosene cura nella vecchia, ma se il figlio diventa il padre di suo padre, linguisticamente diventa suo nonno. La mia identità si definisce non per ciò che sono, ma quando mi privo di ciò che sono, ovvero avviene per privazione: io so il-essere-figlio, quando non lo sono più o sono costretto a non esserlo più, io sono padre nel momento in cui mi viene estromessa la possibilità di esserlo: l’orfanità, che avevamo visto essere uno dei temi dominanti dei primi capitoli, altro non è che questa privazione – il “no-one” che ci definisce per negazione (vd. Appunto 4) –¸ il renderci poveri stabilisce i confini di ciò che siamo; quindi  ciò che sembra impossibile o fallace, per il buon senso comune “posso essere io il nonno di mio padre?” – diventa possibile nel linguaggio (questo flusso costante che domina tutto il romanzo), che appunto si configura come un’avventura, un perdersi nel mare aperto  – siamo all’altezza di Scilla e Cariddi nei supposti paralleli tra Odissea e Ulisse – ed è qui che si liberano in vortici speculativi abissali: chiedersi cosa è padre e cosa è figlio, anzi cosa è Padre e cosa è Figlio, quale sia il loro rapporto diventa nel discorso di Stephen chiedersi cosa è a realtà, e osservare il mondo «come capita di vedere nella vita reale» [IX, 284] .

IL REALE/LA COSA. Il reale è il cosa è [IX, 391]. La citazione per esteso è: «La cavallinità è il cosa è di tutti i cavalli» [ivi]. Cosa-è traduce quello che in latino potremmo chiamare quidditas. Terrinoni traduce la stessa frase con “La cavallinità è l’essenza del cavallo universale” [Terrinoni, 200], Celati scrive: “La cavallinità è la quiddità di tutti i cavalli” [Celati, 256]. Nell’originale leggiamo: “Horseness is the whatness of allhorse”: quindi il termine quidditas non è presente nel testo di Joyce, che usa un vocabolo che suona come “che cosa”; in questa occasione trovo centrata la scelta di Biondi, perché tiene conto e della lettera del testo e dell’ambiguità del termine “cosa”. Nei diversi appunti fin qui scritti abbiamo spesso ragionato in maniera disordinata sulla tensione realistica di Joyce, in appunto 3 abbiamo citato Pound, il quale sosteneva che Joyce fosse un realista, perché dà la cosa come essa è. In quella occasione si è discusso e ragionato sul realismo di Joyce, il tema dello specchio che rappresenta la vita e il fatto che la superficie riflettente, se dobbiamo continuare in questa metafora, dell’Ulisse è quanto meno sbrecciata e fessa. La domanda, che ci possiamo porre all’altezza di questo capitolo, e anche vista l’armamentario retorico e filosofico che Joyce usa durante questo dialogo,  è: “Joyce è più interessato alle realtà o al reale?”.

La domanda non deve parere peregrina: c’è una profonda differenza tra reale e realtà, la stessa che esiste tra whatness e qudditas. Se volessimo giocare a fare gli scolastici medioevali potremmo scrivere in questo modo la frase sui cavalli: “La realtà è la quidditas del reale” o meglio ancora “La realtà è il cosa è del reale”. Cosa significa questo? Significa che ciò che noi chiamiamo realtà, ciò che noi descriviamo ogni giorno, è solo un attributo del reale, ma non è il reale stesso, ciò che noi sappiamo del reale è che in dato momento e in dato luogo diventa realtà, ma il “cosa è”, quello che c’è prima e che sta sotto, che presuppone la realtà (realtà = attributo del reale), ci sfugge.

Questa sfuggevole tensione, alcune volte tortuosa e altre così cavillosa, che produce scherno e derisione dal buon senso comune (la maggior parte degli interlocutori di Stephen pensano che sia pazzo o si annoiano), è il cuore del romanzo, nonché il cuore della riflessione joyciana sulla letteratura (nei vari schemi e diagrammi il capitolo IX si muove sotto l’egida della letteratura); il compito dello scrittore è quello di mostrare questo spazio tra reale e realtà, mostrare,  come accade nei momenti di semiveglia – la famosa veglia di Finnegans e il suo linguaggio nascono qui? -, che oltre la realtà esista qualcosa di più profondo e sconosciuto: il cosa-è. 

Il reale si dà non per “addizione” – le qualità delle “cose”  non sono altro che specificazioni che allontanano la “cosa in sé”? Pensate per un attimo a questa frase: “Dio è onnipotente, immenso, onnipresente, buono, infinito, etc etc”; tutti gli aggettivi e le specificazioni servono a eludere la questione essenziale ovvero “Dio è?” -, ma si raggiunge per negazione. Il reale esiste nel momento in cui dietro il realtà appare qualcosa che intravediamo, come fosse uno scambio o un miraggio: la realtà sono i mulini a vento, il reale sono i giganti.

È il vecchio tema della discrasia tra le parole e le cose, tema che Foucault ravvede per la prima volta nella letteratura in Don Chisciotte. Non stupisce, quindi, date queste premesse, che il personaggio di Cervantes compaia nell’Ulisse: «Un cavaliere dalla trista figura qui a Dublino» (IX, 302). Stephen, Bloom e Chisciotte hanno lo stesso intento narrativo, mostrano a chi legge che il compito della letteratura non è la descrizione della realtà, ma l’indagine sul reale: sul “cosa-è”, che sempre fugge, sempre ritorna, come una melodia, come un suono, come le sirene che troveremo nel capitolo XI.

In Appunti di Lettura

Joyce, Ulisse, Appunto 4 [VIII, 237-285]

di Demetrio Paolin

FLUSSO. «Così scrivono i poeti, assonanza di suoni. Però in Shakespeare non ci sono rime: versi sciolti. Flusso del linguaggio, è. I pensieri. Solenni» [VIII, 242]. Troviamo queste parole nel capitolo VIII. Osserviamo Bloom camminare per la città, impegnato in futili conversazioni, alla ricerca di un posto dove mangiare: l’ottavo è un capitolo dove domina la materialità del cibo e l’atto della masticazione: tutti gli uomini che Bloom incontra durante il suo peregrinare sono descritti con precisa e ironica cura nell’atto di mangiare. La nota fondamentale è la materialità, i bisogni primari del corpo, ma a questa esteriorità si unisce una interiorità che proprio il gesto del cibarsi ci invita a non dimenticare: il cibo è prendere qualcosa di esterno (ed estraneo) e portarlo all’interno (renderlo intimo), è un movimento da fuori a dentro, ma può essere benissimo anche un movimento da dentro a fuori:«Fammi vedere come mangi e ti dirò chi sei» [VIII, 274]. In questo caso, noi lettori ci facciamo cibo e entriamo nell’intimo dei pensieri di Bloom, ne sentiamo il flusso. L’immagine del fluire torna in tre occorrenze la prima nella citazione con cui si apre questo appunto (sottolineo l’ennesimo, errato, riferimento a Shakespeare), e di seguito: «Come si può essere proprietari dell’acqua? Scorre sempre in un flusso, mai la stessa, ciò che nel flusso della vita inseguiamo» [VIII, 243], e infine «Proseguì sul marciapiede principale./ Flusso di vita» [VIII, 246].

La parola flusso è legata a per due volte al termine vita e una volta al termine linguaggio. Potremmo elaborare una sorta di equazione matematica flusso + vita = flusso + linguaggio e, risolvendola, notare una uguaglianza, vita = linguaggio. La vita è il linguaggio, il modo di dire la vita sta nelle strutture del linguaggio che Joyce usa, e queste strutture grammaticali attengono ancora una volta al dentro e al fuori e vengono risolte con una sapiente uso della prima e della terza persona, un’alternanza che proprio in questo capitolo diviene centrale e fondamentale.

PRIMA/TERZA. Parlando di flusso il pensiero corre al “flusso di coscienza”, il monologo interiore di Molly, che conclude il romanzo. Ora il monologo di Molly è posto a fine dell’Ulisse non solo per una logica di trama, ma perché rappresenta l’approdo definitivo di quella lenta, costante e decisa rottura dei legami sintattici e grammaticali, che è il cuore dell’Ulisse come opera letteraria.

Se dovessimo definire il narratore dell’Ulisse potremmo rubricarlo come un classico narratore in terza persona, che per almeno i primi due capitoli ci guida nel racconto; nel cap. III accade qualcosa: con una sempre maggiore frequenza alla  terza persona si affianca una prima. Senza una mediazione sintattico-grammaticale di alcun genere, la narrazione passa da una all’altra: «Il suo passo rallentò. Dunque. Vado da Zia Sara o no?» [III, 78]. In questo caso la terza persona si occupa di raccontarci che Stephen sta camminando e il suo passo rallenta, mentre la prima persona, senza mediazioni (forse il “dunque” ci prepara che qualcosa sta succedendo) ci fa entrare nella testa del protagonista. L’intero capitolo III è una soglia, il passaggio, a una forma di indiretto libero privo tutto “l’armamentario” di deiettici, proposizioni, segni e interpunzioni. La scelta di Joyce di riprodurre l’interiorità dei personaggi passa appunto dallo strumento che l’800 aveva privilegiato come medium per raccontare l’anima; infatti l’indiretto libero – con una serie di abili movimenti grammaticali – ci comunicava il sentire di Bovary, di Nanà, di Lucia o di Renzo o di Raskolnikov. Joyce prende questo mezzo e lo trasforma: il cap. III è dominato da Stephen e dai suoi pensieri, Stephen è un personaggio, uno scrittore, e rappresenta – in maniera obliqua – Joyce e il suo modo di vedersi scrittore. Lo statuto narrativo di Stephen è complesso nel suo duplice essere personaggio e proiezione dell’autore. Non credo allora che sia casuale come l’uso l’indiretto libero (Io) si alterni a una seconda persona (Tu): «Il mio cappello da quartiere latino. Dio, si tratta semplicemente di vestirsi come richiede il ruolo. […]. Eri studente no? Di cosa, in nome dell’altro diavolo?» [III, 83]. Il Tu soliloquiale, vecchio armento dell’interiorità delle letteratura occidentale da Petrarca in poi, è un altro modo per far rendere il lettore edotto dell’animo del protagonista (una sua variante settecentesca furono i romanzi epistolari). Il Tu suona alle orecchie di noi lettori come una intermittenza, un piccolo brillio grammaticale, una movimento della narrazione, in cui si passa da Egli a Io, attraverso il TU. La struttura monologante di Stephen è quindi tripartita (la sua passione per le eresia trinitarie potrebbe essere un indizio?), in cui il Tu media tra i dati materiali raccontati in terza e i pensieri espressi in prima. In Leopold Bloom questo non avviene, nel capitolo VIII, salta completamente il Tu: il capitolo, in soggettiva su Bloom e suoi movimenti per le vie, è un continuo passaggio tra terza e prima. Solitamente questo movimento è segnato da una frase costruita con “Il signor Bloom + verbo”. Vediamone due esempi: «Il signor Bloom scoccò un sorridente Oh, cacchio a due finestre dell’autorità portuale. Ha ragione in definitiva [si riferisce a Molly]. Paroloni per cose ordinarie soltanto perché suonano bene. Lei non è esattamente spiritosa. E può anche essere greve. Sbotta papale papale quello che stavo pensando. Però, non so. Diceva che Ben Dollard ha una voce da basso baritono. Be’, ha due gambe come barili e sembra che stia cantando dentro un barile» [VIII, 244]; «Il signor Bloom, respiro accelerato, passo rallentato, superò Adam Court. […]Sì. Come pensavo. Vita dentro l’Empire. Sparito. Gli farebbe bene una gazzosa lisca. Dove Pat Kinsella aveva il suo Harp theatre prime che Whitbred prendesse in gestione il Queen’s. La quintessenza del ragazzino.» [VIII, 263]. Ciò che si può notare dalle diverse letture di questi indiretti liberi è la loro trasformazione in un flusso, in una sorta di nastro su cui sono registrati i pensieri, l’indiretto monologante di Bloom ha a che fare con una interiorità spicciola (la sua vita coniugale, i tradimenti, cosa mangiare, dove mangiare) in Dedalus a parlare è l’esule, lo scrittore. Altro dato essenziale, sempre in vista del finale flusso di coscienza di Molly, è  la frammentazione in piccole frasi, alcune volte, nominali intervallate da punti fermi: «Funzionerebbe: uno si sente sempre lusingato. Adulazione dove meno te l’aspetti. Nobile fiero di discendere da un’amante del re. La sua progenitrice. E giù a palettate. Cappello in mano si va lontano.» [VIII, 262]. Con lentezza, ma con metodo, Joyce affranca i suoi personaggi dalla sintassi e dalla grammatica, come se alla esplosione della trama seguisse una esplosione del discorso; a questo punto della nostra lettura possiamo registrare: la scomparsa della mediazione del soliloquio (Tu) e la frantumazione del periodo (frasi nominali) e la scomparsa progressiva della sintassi (esempio la punteggiatura).

OMERO. Durante il suo girovagare, siamo quasi a conclusione del capitolo, Bloom incontra un ragazzo cieco [VIII, 281-282]. Questo giovanotto che il protagonista aiuta nell’atto di attraversare la strada è così descritto: «Il signor Bloom si avviò dietro a piedi privi di occhi, un completo di taglio ordinario in tweed a spina di pesce. Povero giovane! Come diavolo faceva a sapere che là c’era il furgone? Deve averlo sentito. Vedono cose nella fronte magiari; una sorta di senso del volume. Peso (o forma, qualcosa di più nero del buio. Chissà se lo avvertirebbe se qualcosa fosse tolto di mezzo. Sentire un vuoto. Un’idea bizzarra di Dublino deve avere, a orientarsi in quel modo picchiettando sulle pietre» [VIII, 282]. Questo personaggio cieco, che sente il vuoto, che si aggira per la città picchiettando le pietre potrebbe essere Omero? Non riesco a togliermi dalla fantasia che Joyce voglia rappresentare Omero a Dublino; il cieco ha una visione (vedono cose nella fronte), si muove nel buio, sente il vuoto. 

NO ONE/ANYTHING. Il capitolo VIII inizia con un annuncio di rivelazione e con un esplicito gioco di parole tra Bloom e blood: «Bloo… Io? No./ Blood. Il sangue dell’Agnello» [VIII, 239], come abbiamo visto in precedenza questo capitolo è dominato dal cibo, come strumento privilegiato per vedere nel cuore di Bloom: «Tutti sono lavati nel sangue dell’agnello. Dio vuole sacrifici cruenti. Nascita, imene, martirio, guerra, fondazione di un edificio, sacrificio, bruciata offerta di rognone, altari druidici» [ivi]. Così il cibo, l’agnello scritto in minuscolo, diventa figura della storia dell’uomo, di ogni uomo, anzi di ogni essere vivente. Bloom in queste pagine, proprio come l’agnello dell’Apocalisse, assume su di se tutti peccati, i dolori del mondo – «Ho un dolore.» [VIII, 259] -, assume su di sé il mondo e la sua sofferenza: «Ne nasce uno ogni secondo qua o là. Un altro muore ogni secondo. Cinque minuti da quando ho dato da mangiare agli uccelli. Trecento hanno tirato le cuoia. Altri trecento nati e gli hanno lavato via il sangue, tutti sono lavati nel sangue dell’agnello, strillando beeee» [VIII, 258]. La sofferenza dell’uomo si tramuta in queste righe in qualcosa basilare, primordiale: una sofferenza animale: «Il dolore degli animali, inoltre. Spiumare e tirare il collo ai polli. Quegli sventurati animali al mercato del bestiame in attesa che la mannaia gli apra il cranio in due. Muuu. Poveri vitelli tremanti. Meee. Zampino tremolino. Manzo e cavolo. Polmone che sballonzola nei secchi dei macellai» [VIII, 268]. C’è in Bloom uno sguardo sul creato colmo di pietà – «il signor Bloom tiro avanti alzando gli occhi afflitti» [VIII, 243] – per ciò che vede nel suo peregrinare: «Uomini, uomini, uomini. […]. Appollaiati su sgabelli alti al bancone, […] o ai tavoli che berciano per chiedere altri pane compreso nel prezzo» [VIII, 265]. Una visione così potente che lo costringere a chiedersi: «Sono così io?» [ivi]. Cosa è un uomo? È questa la domanda che nasce leggendo questo capitolo e Bloom sembra rispondere quando in uno dei suoi monologhi dice: «Nessuno è niente» [VIII, 259]. La parola “nessuno” ci riporta a Ulisse Odissea, IX, 366. Nell’originale leggiamo «No one is anything». Grammaticalmente è corretto tradurre e risolvere come fa Biondi, ma anche Terrinoni, “nessuno è niente”, ma si perde una certa sfumatura. Celati traduce con «Nessuno è qualcosa» [Celati, 226], che, forse meno corretta, condensa in sé il tema del capitolo. Se la risolvessimo letteralmente dovremmo scrivere: No-uno è quache-cosa. Quindi nessuno è qualche cosa, anche l’essere nessuno, il chiamarsi nessuno, è qualcosa. Nella traduzioni di Biondi e Terrinoni tutto scivola in un nichilismo, lontanissimo dalla visione joyciana. C’è, invece, nel VIII il tentativo profondo e complesso di descrivere la materialità degli esseri umani (partendo loro modo di mangiare) e il loro vivere e morire (presentandoceli come animali morenti). Bisogna interrogarsi su cosa significhi la parola nessuno:  nessuno è l’uomo da nulla, l’uomo che è solo se stesso, che non ha altro da sé, proprio come Ulisse quando mette piede a Itaca mendico, Ulisse è così “nessuno”, è così povero di sé, da non riconoscere neppure la sua isola; nessuno indica l’uomo  che non ha altro che il suo essere sé; la nuda vita, che si espleta nelle funzioni basilari e fisiologiche; ma allora questo “nessuno” è qualcosa, è qualcuno, è chiunque. Diventa ogni umano, si trasforma da “no one” a “everyman”, diviene ognuno di noi. Così nelle pagine di questo capitolo assistiamo alla trasformazione di Bloom in un personaggio universale, che – alla pari di Ulisse o Amleto – travalica le pagine del romanzo, per diventare patrimonio comune del nostro immaginario.

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Joyce, Ulisse, Appunto 3 [VI, VII, 166-237].

di Demetrio Paolin

CIMITERO. Il capitolo VI è il resoconto di un funerale. Se guardassimo all’Ulisse come ri-scrittura dell’Odiessea ci troveremo davanti a un episodio che parodizza il viaggio nel regno dei morti; in realtà   è se queste pagine si confrontano con Amleto, V scena 1 (https://shakespeare.folger.edu/shakespeares-works/hamlet/act-5-scene-1/). In quelle sequenze abbiamo davanti a noi la mescolanza di stile tragico e comico, di alto e basso, che è la cifra, secondo Auerbach, dell’opera di Shakespeare e del realismo creaturale alla base di tutte le opere prese in analisi in Mimesis. Il cap VI vive della medesima mescolanza tra riflessione sapienziale e la battuta più trita. Parlando del cap VI, mi piacerebbe ravvisare la centralità dell’Amleto come funzione narrativa in tutto lo sviluppo del romanzo di Joyce.  Proviamo a sondare un po’ il testo per vedere se le nostre impressioni sono suffragate dai testi. Bloom riflette nuovamente su Rudy: «Se il piccolo Rudy fosse vissuto. Vederlo crescere. Sentire la sua voce in casa. Lì a camminare al fianco di Molly in un completo tipo Eton» (VI, 152) . È un momento lirico e poetico, e Joyce di seguito racconta così il concepimento: «Dev’essere stata quella mattina in Raymond terrace che lei era alla finestra a guardare due cani che ci davano accanto al muro del gabbio. E il pulotto guardava ghignando. Indossava una gonna color crema con lo strappo che non ha mai rammendato. Dammi una botta, Poldy. Dio, sto morendo di voglia. Così comincia la vita» (VI, 152).  La mescolanza di stile, che è il sigillo della grandezza di Shakespeare, è quindi cercata e raggiunta più volte da Joyce: «Una bara scaraventata sulla strada. Si spalanca. Paddy Dignam sparato fuori, che rotola stecchito nella polvere in un abito marron troppo grande per lui. Faccia rossa: adesso grigia. Bocca che penzola aperta. Chiedendosi adesso cosa succede, Giustissimo chiudergliela. Aperta è orrenda da vedere. E poi le interiora si decompongono in fretta. Molto meglio tappare tutti gli orifizi. Sì, anche. Con cera. Lo sfintere rilasciato. Sigillare tutto» (VI, 166) . Si intravede nella citazione il ricordo delle riflessioni dei becchini, e il loro modo stralunato di interpretare l’ubi sunt?. Poche  pagine dopo leggiamo: «Ogni mortale giorno un’infornata nuova: uomini di mezza età, vecchie, bambini, donne morte di parto, uomini barbuti, professionisti calvi, ragazze tisiche con tettine da passero.» (VI, 174). La nostra fragilità si mostra nella contemplazione del corpo morto: «Il tuo cuore forse ma cosa non gliene frega al povero diavolo chiuso in quei sei piedi per due con i ditoni rivolti alle margherite? […] Ce n’è un fottio qui intorno: polmoni, cuori, fegati. Vecchie pompe arrugginite nient’altro. La resurrezione e la vita. Una volta che sei morto sei morto» (VI, 175). Tutta la scena del cimitero avviene all’interno di un «sbarrato, disabitato, incolto giardino» (VI,168 – citazione da Amleto),  un luogo poco salubre, che «sembra zeppo di gas malsano» (VI, 173). In questo ambiente compaiono ovviamente i becchini (VI, 174), nell’economia dell’Amleto i becchini svolgono una funzione comica,  ripresa nel Ulisse quando uno dei necrofori racconta la storia dei due ubriaconi alle persone presenti alla tumulazione dell’amico, sono poche righe dal sapore di aneddotico e di burla (VI, 177).

Altra prova dell’influenza prodotta dall’atto V scena 1 dell’Amleto è il tema del suicidio. I due becchini nell’Amleto parlano del suicidio di Ophelia, e riflettono se/quanto sia lecito o meno seppellire in terra consacrata una persona che si è tolta la vita. Il signor Power, durante il funerale, dice: «Ma peggio di tutto è colui che si toglie la vita» e rincara la dose: «La peggior disgrazia che possa capitare a una famiglia» (VI, 162 -163).  Tra le persone scende il gelo, il padre di Bloom si è suicidato, e sta a Cunningham portare un po’ di ragionevolezza, deviando la conversazione su lidi più sicuri, un gesto subito riconosciuto da Bloom: «I grandi occhi di Martin Cunningham. Che adesso guardava da un’altra parte. Di faccia assomiglia a Shakespeare. Sempre pronto a mettere una buona parola. Questa cosa non la perdonano, come l’infanticidio. Rifiutano l’esequie cristiane.[…] Trovato sul letto del fiume aggrappato a giunchi» (VI, 163). Nelle parole di Bloom, oltre alla menzione di Shakespeare,  la citazione dell’Amleto è duplice a) l’immagine dei giunchi, che unisce la morte per acqua (Ophelia) e il letto di morte (il padre di Bloom ), b) il suicidio come atto di riprovazione eterna. Le evidenze testuali, infine, sono tali che quando Bloom nomina “i becchini dell’Amleto” (VI, 180) nessuno pare stupirsi.

AMLETO. Ulisse allude continuamente all’Amleto: già nei primi capitoli era così, pensiamo all’immagine del marcio, del verde marcio, nella figura di Stephen è adombrato Amleto: «Così nei turni di guardia della luna io pattuglio la stradina sopra le rocce, in nero argentato, prestando orecchi alla tentatrice marea di Elsinore» (III,88). Stephen, come Amleto, è orfano, esule e al limite della follia: ad accomunare Ulisse, Amleto e Odissea è una struttura narrativa remota, che si perde all’inizio dei tempi: l’orfanità. Si inzia a scrivere perché si è orfani, in Stephen ritorna il tema del figlio che ha perduto i genitori (realmente: la madre; simbolicamente: il padre), anche Bloom è orfano di Rudy. Non esiste una parola che descriva la situazione di un genitore a cui muore il figlio e ciò indica un vuoto grammaticale, sintattico, concettuale per significare qualcosa fuori da ogni immaginazione. Bloom è come il fantasma del re, che morto o passato a un altro modo, si scopre privato del proprio figlio. Nel 1596 a Shakespeare muore il figlio Hamnet: è possibile che sia avvenuto qualcosa, che quella morte abbia prodotto nello scrittore inglese una incrinatura, una rottura dello svolgersi del tempo, un cambiamento nelle regole dell’universo, che ha creato un cosmo alla rovescia dove il brutto è bello e il bello brutto? Shakespeare è così enigmatico, così lontano da ognuno di noi – noi sappiamo cosa sentono i suoi personaggi, ma di lui ignoriamo ogni singolo sentimento – che potrebbe essere un’ipotesi percorribile, e Joyce è un così grande narratore che, incuriosito da quella zona d’ombra, in cui in nome del figlio assona con quel del protagonista, ha potuto immaginare in un tempo fuori di sesto, sotto un cielo marcescente, uno Shakespeare/Bloom straziato dal dolore, che osserva i becchini seppellire tra motti e battute la piccola bara di Hamnet/Rudy.

DUBLINO. Pound sostiene che Joyce «è un realista… dà la cosa come essa è». L’Ulisse può essere letto come romanzo realista? I grandi scrittori ottocenteschi accostano le proprie opere a uno specchio/finestra: la scrittura, come tentativo di chiudere in un modo finito un mondo infinito, trova il suo correlativo nello specchio, che che con il passare degli anni diventa sempre più “fedele”, ma come  aggiunge George Eliot altrettanto «difettoso; qualche volta i lineamenti appariranno offuscati, le immagini deboli e confuse; ma mi sento in dovere di narrarvi il più fedelmente possibile tutto quanto vi è stato impresso, come fossi in tribunale, sul banco dei testimoni, e dovessi riferire sotto giuramento tutta la storia alla quale ho assistito».  Lo specchio intravisto nelle prime pagine (I, 21) dell’Ulisse, quindi, è un rimando a questa funzione narrativa, ma in Joyce accade che lo specchio s’incrini e la realtà si disponga diversamente. Concentriamoci brevemente sul capitolo VII, esso è composto da una serie di frammenti con tanto di titoli; potremmo ipotizzare che siano come cartoline più o meno brevi dalla Dublino di inizio Novecento, potremmo pensare che queste prose come dei flash, dei lampi, dei frantumi o trucioli; insomma vedere in Joyce una deframmentazione della realtà, un suo scomporsi simile a ciò che accadeva con il cubismo in arte figurativa. Ci si potrebbe spingere più in là e dire che Joyce è antesignano di narrazioni contemporanee completamente parcellizzate. Lo specchio di Joyce, però, non è andato in frantumi, ma si è incrinato, ovvero la sottile lastra  è fessa da linee, sbucciature e piccoli difetti che rendono l’immagine scomposta ma in sé unitaria.  Joyce vuole raccontare questa molteplicità focale, è come se il suo specchio franto avesse più punti di vista, più luoghi, attraverso i quali la “cosa reale” può essere vista. Queste pagine sono anche le prime dove Dublino entra in scena in tutta la sua interezza, che non può essere simile alla rappresentazione della città nel romanzo dell’800, ma che deve dare il conto dei cambiamenti che sono avvenuti. C’è di certo una memoria balzachiana, penso a Illusioni perdute, ma in queste pagine, dove per la prima volta troviamo accostati i due filoni narrativi di Bloom e Stephen, Joyce inscena una modificazione profonda. Se nell’ottocentesca Parigi di Balzac i giornali erano il trampolino di lancio per giovani scrittori pronti a conquistare il mondo e metterselo sotto i piedi, nell’Ulisse vediamo Bloom che ragiona e litiga con direttori, compositori di pagine etc etc per strappare un quartino o mezza pagina di pubblicità, che spiega bozzetti di reclame, che tratta gli spazi a livello economico. Bloom è insomma il prototipo del pubblicitario, che costruisce pagine come se fossero articoli che vengono comprate dagli inserzionisti. La comparsa di Dedalus è invece interessante, perché in Stephen Joyce lasca viva una traccia dello scrittore squattrinato, scoria ulteriore di naturalismo nel romanzo. Infatti con Stephen il discorso vira da economico a letterario. Dedalus inizia a raccontare a voce alta una breve novella che vorrebbe pubblicare sul giornale (VII, 230 ). Il paragrafo, che si apre con le parole «Gente di Dublino»,  chiaro riferimento ai Dubliners,  non è un racconto dentro il romanzo, ma è l’esposizione orale del racconto da parte di Stephen, una storia, che avrebbe potuto far parte di quella raccolta, interrotta e inframmezzata da alcune apparizioni brevi di Bloom, ritratto mentre cerca di chiudere un contratto pubblicitario. Potremmo rubricare questo passaggio sotto il titolo l’arte nella epoca della reclame: mentre ancora Stephen sogna quel mondo che fu (non è un caso che citi il motto di Flaubert, in appunto 2), Bloom rappresenta la disgregazione di quella realtà. L’incrocio tra di due personaggi, che si sfiorano per ora, è presagito nel traiettorie dei tram di Dublino, che danno la reale dimensione della città: «In vari punti delle otto linee c’erano vetture tranviarie freme sui binari con trolley immobili, dirette a o provenienti da Rathmines, Rathfarnham, Kingstown, Blackrock….[…] tutte ferme, bloccate in un cortocircuito. Fiacre, carrozze, carri per consegne, furgoni postali, brum privati, carri scoperti di acqua minerale gasata pieni di sbatacchianti cestelli di bottiglie sferragliavano, rotolavano, trainati da cavalli, rapidamente.» (VII, 236). La molteplice unità (i nomi delle linee) e la moderna frenesia (l’avverbio “rapidamente”) della città sono il segno di un nuovo modo di guardare la realtà sempre attraverso uno specchio, a cui qualcuno ha tirato un pugno.

In Appunti di Lettura

ULISSEIDE – Joyce, Ulisse, Appunto 2 [III-VI,83-165]

di Demetrio Paolin

CIBO. Leopold Bloom compare nell’Ulisse nel quarto capitolo (IV, 101): è impossibile fornire un quadro esaustivo di ciò che rappresenta per la letteratura novecentesca e contemporanea l’apparizione di questo personaggio. Queste righe si prefiggono  un  “compito minore e limitato” (Frank Kermode) ovvero fornire qualche appunto di lettura. L’incipit del quarto capitolo è: «Mangiava di gusto, il signor Leopold Bloom, le interiora di animali e di volatili» (IV, 101). La concretezza del gesto (il mangiare) e  la precisione nel descrivere uno stato interiore (la golosità), sono unite a un’immagine che suggerisce qualcosa di più arcaico (le interiora). In Aspetti del romanzo Forster ricorda che i personaggi – funzioni verbali create dal linguaggio – si mostrano agli occhi del lettore come reali e concreti, attraverso alcune qualità: la nascita, la morte, il sonno, l’amore e cibo: «il cibo è l’anello di congiunzione tra mondo conosciuto e mondo dimenticato; legato saldamente a una nascita che nessuno di noi ricorda, e che giunge fino alla colazione di stamani».  Bloom è rappresentato come un moderno aruspice che sonda le interiora delle bestie per mostrare ciò che siamo e diventeremo. Non è casuale che il suo taglio di carne preferito sia il rognone, filtro delle impurità corporali e luogo di produzione dell’urina. Una prima apparizione del “piscio” ha come protagonista Dedalus: «Scorre ruzzolando, ampiamente scorrendo, galleggiante pozza di schiuma, fiore che si dispiega» (III, 96). Poniamo attenzione sulla immagine del “fiore” e della “schiuma”, perché appare identica nella descrizione del gesto di Bloom: «vide gli scuri riccioli aggrovigliati del pube galleggiare, galleggiante chioma del flusso attorno al flaccido creapopoli, languido fiore galleggiante» (V, 147). Nel linguaggio biblico le reni rappresentano l’intimo, l’interno, il nascosto, il lato umbratile dell’essere umano; rimandano in qualche modo alla potenza sessuale, alla sessualità espressa e repressa.

NATURALISMO. Bloom è uno dei personaggi in cui si incarna il modernismo, eppure le sue radici più tenaci sono tipiche del romanzo realista dell’Ottocento: Bloom come Bovary, quindi? Che Joyce avesse in mente il grande romanzo di Flaubert, e lo considerasse una pietra di paragone è una ipotesi suggestiva[1] e quindi non desta stupore l’esclamazione di Stephen, «Cappello, cravatta, soprabito, naso. Lui, c’est moi» (III, 82), che ricalca un famoso motto flaubertiano.  Bloom appare a noi senza la mediazione di aggettivi. Lo vediamo compiere un’azione consueta, il mangiare, ma non sappiamo nulla del suo aspetto fisico. Solo successivamente, molte righe dopo, Joyce ce lo descrive  come “bigio e tozzo” (IV, 101): la distanza tra l’apparizione del nome “Bloom” e la sua descrizione “bigio e tozzo” è accentuata da una serie di termini semanticamente legati al cibo (interiora, volatili, cuore, rognone, il languorino, il pane, il burro, il the): il dato materiale disinnesca la descrizione fin troppo “comune” del personaggio. La diade qualificativa risalta e interroga, perché lontana dal nome proprio di Bloom; Joyce avrebbe potuto scrivere “Il signor Bloom, bigio e tozzo, mangiava con gusto le interiora di animali e volatili”, compie invece una scelta stilistica diversa, perché?

CLICHÉ. Bloom rappresenta alcuni cliché del romanzo ottocentesco a)il bisogno di soldi (IV, 106; 109; 111) ; b) la trasandatezza del vestire (IV, 104); c) una vita sessuale più sognata che attiva (IV,107) con tanto di d) tresca immaginaria via lettera(V,135). I punti a, b, c e d rappresentano in un’ottica ottocentesca gli accadimenti narrativi che conducono la freccia della nostra narrazione da un inizio a una fine. Potremmo definirli peripezie che producono il desiderio da parte del lettore di continuare nella lettura; Joyce prende quel tipo di armamentario, lo rende parodico ed estremo, come lo è la scelta di raccontare 24 ore“a caso” di un personaggio .

«Potrei buttar giù un bozzetto. Dei signori L. M. Bloom. Inventare una storia su un proverbio. Quale? Un tempo cercavo sempre di annotarmi sul polsino quello che diceva lei mentre si vestiva. Non mi piace che ci vestiamo insieme. Mi tagliavo radendomi. Lei si mordeva il labbro inferiore» (IV,122). La parola “bozzetto” è interessante. È un termine preso in prestito dalle definizioni di genere letterario in voga nell’ottocento, Bloom la pronuncia, mentre legge un  racconto (ironica rivisitazione di un racconto giovanile di Joyce) pubblicato su una rivista. Niente di nuovo: un personaggio riflette sulla sua vita sentimentale mentre legge un racconto, se non fosse per il luogo in cui avviene: «Aprì con un calcio la porta sgangherata del cesso». Bloom, accosciato sulla «cattedra stercoraria» nel «tanfo di calce muffosa», durante la defecazione, legge «in silenzio, trattenendosi, la prima colonna e poi, cedendo ma ancora resistendo, attaccò la seconda. A metà, al cedere dell’ultima resistenza, lasciò che i visceri si rilasciassero quietamente mentre leggeva, continuando a leggere pazientemente, totalmente superata la stitichezza del giorno prima» (IV, 122). Il contrappunto tra il falso racconto naturalista e la pratica di evacuazione corporea è la mimesi radicale: se dobbiamo mostrare la realtà per come è, allora non dobbiamo sottrarci davanti a nulla, neppure davanti alla merda dei nostri protagonisti. La chiusa del cap IV è talmente icastica da rappresentare alla perfezione il modo con cui Bloom e il suo autore si presentano al pubblico: «Strappò via bruscamente metà del premiato pezzo e ci si pulì il culo. Poi tirò su i calzoni, infilò le bretelle e si abbottonò. Tirò a sé la sobbalzante traballante porta del cesso e uscì dalla penombra all’aria aperta» (IV,123).

STERILITÀ. Uno dei tratti dominanti di queste prime pagine su Leopold Bloom è la sterilità. Ulisse viene pubblicato nel 1922, lo stesso anno di The Waste Land di Eliot. La sterilità, che domina entrambe le opere, non riguarda non solo la sfera sessuale, ma l’impotenza rispetto al mondo, ormai landa deserta, vuota e grigia, abitata da uomini invecchiati prima del tempo, vizzi come fiori. Si leggano i versi della terza parte di The Waste Land (https://poetryarchive.org/poem/waste-land-part-iii-fire-sermon/) e si accostino a «Una landa sterile, nudo deserto. Lago vulcanico, il mar morto: niente pesci, senza alghe, sprofondato nella terra. Nessun vento potrebbe sollevare quelle onde, grigio metallo, fosche acque velenose. Un mare morto in una landa morta, grigia e vecchia. […]. Ma ha generato i progenitori, la prima stirpe. […]. Adesso non poteva più generare. Morta; di una vecchia; la grigia figa infossata del mondo» (IV, 110). La comunanza d’immaginario è certamente interessante, come se derivasse da uno choc di percezione, che è primariamente linguistico[2]. La sterilità della natura è legata in Bloom a una riflessione sulla propria stirpe (IV,110). C’è quindi un rapporto stretto tra sterilità/ discendenza. Nella scena dell’urina (V, 147) questa tensione è presente nel rapporto tra aggettivo – floscio –  e nome –  creapopoli – . La vita sessuale di Bloom è legata a fantasie sessuali, difficilmente realizzabili: la cameriera dei vicini di casa incontrata dal panettiere (IV, 107), la blasfema descrizione della comunione in chiesa: «Il prete passavo loro davanti a una a una, mormorando, reggendo la cosa tra le mani. […] Si fermò a ciascuna di esse, estrasse l’ostia, […], e gliel’infilò destramente in bocca» (V,139);  e infine l’amante Martha (V, 134). Bloom nutre per Martha un  desiderio sessuale de lonh. In una versione deforme dell’amore cortese, Bloom, che si fa chiamare da Henry Flower (V, 137), esprime il proprio desiderio in termini di trobar clus: «Arrabbiata tulipani con lei adorata orchide italica punisco il suo cactus se non accontenta la povera nontiscordardimé quanto anelo viole al caro rose, quando noi presto anemone ci conosceremo tutti ragazzacci belladonna moglie di profumo di Martha» (V, 135). Il desiderio più che esperito è un fatto linguistico, sublimato desiderio in parole. È necessario che la parola, quindi, venga chiarita, per ben due volte a Bloom viene chiesto il significato di una parola i) Martha: «La prego, mi dica qual è il vero significato di quella parola» (V,135); ii) Molly: «Dimmelo con parole semplici» (IV, 114-115 ).

FIGLIO. Rudy è la parola segreta, che costringe Bloom a produrre immaginazioni sessuali sterili. Il figlio morto di Leopold e Molly Blom viene nominato la prima volta con queste parole: «Ha capito [si riferisce alla levatrice] che il buon piccolo Rudy non ce l’avrebbe fatta. Be’. Dio è buono, signore. L’ha capito subito. Avrebbe undici anni, se fosse vissuto» (IV, 118). L’immagine di Rudy continua a circolare sotterranea nelle pagine successive, che Bloom pare allontanare con il ricorso a ragionamenti economici. Se il figlio morto è un pensiero latente e oscuro, l’altro polo del pensare è economico: Bloom è spesso descritto mentre fa di conto, come quando si chiede quante pinte di birra abbiano venduto i proprietari della Guinness per diventare così ricchi: «Due pence a pinta, quattro pence per un quarto, otto pence a gallone di porter, no, uno e quattro pence a gallone di porter. Venti diviso uno e quattro: quindici circa. Sì, esattamente. Quindici milioni di barili di porter. Cosa dico barili? Galloni. Comunque circa un milione di barili» (V, 137). Bloom comprende le persone tramite un valore di economico, come un far tornare i conti, un mettere in ordine guadagni e perdite. Rudy è, perciò, la restituzione mancata, la cifra errata dell’addizione, è la falla del suo pensiero: «Una faccia da gnomo, viola e grinzosa, come era quella del piccolo Rudy. Un corpo da gnomo, fragile come il gesso, in una cassa di abete foderata di bianco. Funerale pagato dalla società del muto soccorso. Un penny alla settimana per una zolla di terra. Nostro. Piccolo. Straccione. Bimbo. Senza senso. Sbaglio di natura. Se è sano dipende dalla madre. Altrimenti dall’uomo. Andrà meglio la prossima volta». (VI, 162). Ecco che la tensione tra dentro e fuori, tra sterilità e sesso, tra cibo e escrementi qui si coagula terribilmente “se è sano dipende dalla madre, altrimenti dall’uomo”: il sesso ha prodotto uno sbaglio della natura, uno gnomo grinzoso, qualcosa che non può essere restituito, una morte che ha valore di perdita anche economica (il penny alla settimana), qualcosa di irrimediabile, infine, che rende malinconico e triste, simile a una sbronza,  il bozzetto tardo ottocentesco di Molly e Leopold (IV.122).


[1]      Lo stesso Italo Svevo considerava l’Ulisse un’opera che portava a compimento la poetica realista.

[2]      Nel saggio Narratore Benjamin lo afferma chiaramente: “Non si era visto, alla fine delle guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile?”

In Appunti di Lettura

ULISSEIDE – Joyce, Ulisse, Appunto 1 [I-II-III, 21-83]

di Demetrio Paolin

BUCK. Dell’incipit del romanzo, o meglio del periodo che apre il romanzo,  sottolineo il soggetto e le sue apposizioni: «Statuario, pingue, Buck Mulligan» [I, 21]. Cosa si vede?  In primo luogo la mescolanza di alto e basso, non tanto nel registro linguistico, quanto concettuale: “statuario” ci porta alla mente i monumenti; mentre “pingue” afferisce certo all’obesità,ma è connotato dal suo riferimento a Falstaff, il personaggio scespiriano definito più volte nelle sue apparizioni come “pingue”. Sono sufficienti, quindi, poche parole per capire già quale sarà il linguaggio dell’Ulisse: alternanza di registro alto e basso, marcata inter-testualità. Proseguendo nella lettura, troviamo lo “specchio” e il “rasoio”, due oggetti neutri in sé, ma il loro posizionamento a croce e la successiva citazione latina dal salmo attirano la nostra attenzione. Buck è un sacerdote che celebra una messa o un surrogato di essa.  L’intento parodico (non in senso spregiativo) dell’Ulisse, quindi, è sin dalle prime righe decisivo: la natura dei grandi romanzi  è di presentarsi come antimodello.

STEPHEN. Quindi (clausola temporale) appare Stephen Dedalus: la sua descrizione non è incentrata sul corpo (vd. Buck), ma sul suo nomignolo: Kinch. La parola allude al termine bambino, ma assonante nel significante al rasoio affilato.  Stephen, perciò, lo abbiamo già incontrato, senza riconoscerlo, nel rasoio delle prime righe, accompagnato dallo specchio. Specchio che ritorna  [I, 30] nel momento in cui Stephen si domanda: «Come mi vedono lui e gli altri? Chi mi ha scelto questa faccia?». Tale interrogativo potremmo rubricarlo sotto il tema del discorso dell’orfano: Stephen ritorna sul tema della madre, della sua morte e sul tema del padre, che è presente come ragionamento letterario: il dialogo e le riflessioni su Amleto [I, 47-48], ma anche all’elenco delle diverse eresie [I,51], che hanno appunto come loro centro il rapporto tra Padre e figlio; mentre nel capitolo III la figura del padre si incarna nella voce «consustanziale» [III, 78], che si mescola con il flusso di pensieri diretti di Dedalus. Questo tema è il primo punto di contatto tra Ulisse e Odissea, molto più  che le corrispondenze architettura narrativa o le citazioni dei calchi omerici; infatti nell’Odissea il viaggio ha a che fare con l’identità. Ulisse, declinando il suo nome come nessuno, non mette solo in atto uno stratagemma furbesco, ma attribuisce a sé stesso una condizione umana monca: Ulisse è letteralmente nessuno, uomo da nulla, è stato re marito guerriero, ma mentre fugge da Polifemo, non è più nulla. Telemaco, nel parallelo istituito da Omero, vive la stessa condizione del padre, non più figlio, non più figlio di re, non più pretendente al trono, si trova nella stessa situazione del padre: non è nessuno.  A questo viaggio come movimento esteriore che produce cambiamenti interiori si può collegare il susseguirsi delle azioni e dei gesti nelle prime pagine del romanzo, nelle quali è ravvisabile una sorta di dicotomia tra dentro e fuori. Se ripercorriamo i gesti dei personaggi noteremo che a) Buck e Stephen sono sulla torre (fuori), b) poi entrano dentro una stanza (dentro), c) escono (fuori), d) quindi Buck si immerge nel mare (dentro); e) Stephen è in classe (dentro), f) poi i suoi ragazzi escono per giocare (fuori), g) poi lui entra dal preside Deasy (dentro), h) quindi esce per andare dallo zio (fuori) e i) infine è a casa dello zio (dentro).  Questo continuo dentro/fuori, che è spaziale, ha una declinazione fisica in Stephen, anzi nella parole che Buck dedica a lui: «Il moccichino del bardo. Un nuovo colore per i nostri poeti irlandesi: verde moccio» [I, 28]. Il moccio esce dall’intimo di Stephen: è segno preciso dell’interiorità del protagonista.  È sintomo di qualcosa di marcio, che egli ha dentro di sé: in questo verdastro, che ricorda la tonalità di certi incubi di Shakespeare, pieni di acqua putrida e torbida, non c’è nulla di salutare. Ecco l’identità di Stephen è una identità di colpa come gli ricorda Buck: «La zia pensa che sei stato tu a uccidere tua madre» [I, 29]. In queste prime pagine il tema della morte della madre si presenta spesso  [ I, 30-31; II, 61], ma mi soffermo su un episodio del capitolo II , Stephen pone un antico un indovinello ai suoi alunni: «Cantava il galletto/il cielo era perfetto: del paradiso i batacchi/battevano undici rintocchi./ È ora che quest’anima buona/vada in paradiso.// Cos’è?» [II, 59]. Mi soffermo su quest’ultimo stralcio di testo, perché appunto l’indovinello è un’interrogazione profonda sull’identità. Nei versi possiamo individuare una serie di echi evangelici, il canto del gallo/tradimento, “è ora”/consumatum est dal vangelo di Giovanni, le ore battute/le tre del pomeriggio orario della morte di Cristo. Siamo davanti a una piccola passione, al racconto di una morte e di un tradimento.  A  pronunciare questo indovinello è Stephen che come abbiamo visto è accusato di aver “ucciso” la madre.  Reso più esplicito l’indovinello, anche la risposta allo stesso deve essere interpretata. Dopo alcuni tentativi a vuoto dei suoi alunni, ecco la risposta alla domanda: «La volpe che seppellisce la nonna sotto un cespuglio di agrifoglio» (II, 59).  Rispetto alla risposta tradizionale, Stephen non usa il termine “madre”, ma “nonna”: una sostituzione, un breve scarto, un lapsus, che mostra chiaramente la sua colpevolezza.

MADRE/MARE/ESILIO. L’immaginario legato alla madre non si conclude qui. Joyce gioca una serie di rimandi narrativi, di tessiture di vocaboli, che in un certo senso legano il tema del mare e a quello della madre. Buck stabilisce un rapporto tra mare e verde moccio tramite il calco omerico de «Il mare color verde moccio» [I, 28], poche righe prima Buck ha dichiarato che il mare è «una dolce e grande madre» [I, 28], e successivamente con una piccola variatio sostiene che l’acqua è «la nostra potente madre». La trasformazione del mare nella madre e il successivo legame con la colpa di Stephen avviene poche righe più sotto: «Attraverso l’orlo liso del polsino vedeva il mare salutato nei termini di grande dolce madre dalla ben pasciuta voce al suo fianco. L’anello di baia e orizzonte racchiudeva un’opaca massa di liquido verde» [I, 29]. Il mare verde suggerisce anche la madre patria. Anche in caso Joyce gioca con una serie di rimandi, che infine legano il mare al latte, bevuto durante la colazione [I, 39-41]. A tenere insieme è l’apparizione di una vecchia, osservata tramite gli occhi di Stephen: «La guardò versare nel misurino e da lì nel bricco sostanzioso latte bianco, non suo. Vecchie poppe vizze. Ne versò di nuovo una misura […] strega seduta sul suo fungo velenoso, le rugose dita svelte sui capezzoli spruzzanti. Muggivano intorno a lei, che conoscevano, animali serici di rugiada. Seta di vacca e povera vecchia, come chiamavano un tempo l’Irlanda. Una vecchia errante» [I, 41].  Queste parole possono essere lette in parallelo con quelle [II, 61] in cui Stephen racconta di come sua madre «con il suo sangue debole e il latte acido di siero lo aveva nutrito e aveva celato alla vista degli altri le sue fasce». Il tema della madre patria che nutre da tette vizze simboleggia l’esilio, che viene introdotto da alcuni riferimenti al cibo e al denaro che si coagulano in una serie di riflessione sulla condizione ebraica (di per sé esiliata). Nel cap. II assistiamo al colloquio tra Stephen e il preside Deasy che all’atto di pagare Dedalus per il suo lavoro di insegnante, dà il via una lunga tirata, dove sono ripresi molti dei temi tipici contra judaeos: «Hanno peccato contro la luce. E gli si vede il buio negli occhi. Ed è per questo che vanno tuttora errando sulla terra» [II, 69].  Poche pagine prima [II, 58] Stephen si paragona a un essere che non sopporta la luce: «[…] sotto lampade di luminescenza, impalati, con antenne che fremevano lievemente; e nel buio della mia mente un bradipo da inferi, riluttante, schivo della luce, che muoveva le sue scagliose spire di drago. Pensiero è pensiero del pensiero. Luce tranquilla». Si può ipotizzare una sorta di sovrapposizione sulla condizione dell’erranza ebraica e la propensione alle tenebre, secondo le parole del preside Deasy, e la condizione all’esilio e al buio di Stephen Dedalus, che infatti afferma: «Io non vedo niente»[II, 58]. Il tema dell’ebreo errante e l’erraticità saranno fondamentali nello sviluppo del romanzo, ma già qui se ne avvedono i prodromi.

PARANOIA. «Guarda. Sempre lì senza te: e sempre, nei secoli dei secoli» [III, 76]. Nel capitolo III si incontra questa affermazione, che pare alludere alla reale. Esiste una realtà che è inaccessibile, che sta “lì senza di te” e da sempre, sono le cose reali e concrete; gli alberi, la malattia, il cibo, lo sperma, la gioia, i pensieri, il sesso e la morte sono cose che sfuggono a una concreta comprensione. C’è un albero qui davanti alla mia finestra: posso dire una serie di cose su questo albero, come è cresciuto, quando ha messo le gemme, quando ha messo le foglie etc etc; ma come posso conoscere quello che l’albero è? Posso solo immaginare quello che l’albero è, posso solo dire cosa è in relazione a me: la realtà che io descrivo è soltanto in relazione a me soggetto che la guardo, non ne ho esperienza. Potremmo definirla una sorta di paranoia, perché quello che lo scrittore spaccia per descrizione di realtà è solo un insieme di convinzioni, che sono indimostrabili, nella massima parte, e false per il rimanente. La narrazione è una forma di paranoia, la più alta ed evoluta se volete, che permette all’autore di codificare una serie di corrispondenze che vede solo lui. Il lettore è costretto a credere – tramite il rapporto sintassi, logica compositiva, storia – all’autore della storia e ai suoi personaggi. La famosa “sospensione di credulità” è appunto un avallo di una paranoia. La realtà e la letteratura sono due entità separate. «I segni caratteristici di tutte le cose, io sono qui per leggere» [III, 75]. Joyce parla dei signa rerum, i segni delle cose, delle impronte, che qualcuno deve interpretare: questo esclude la possibilità di conoscere la cosa in sé;  del reale conosciamo solo i segni, le orme, il passaggio, non la intima essenza: si conosce negando la realtà, si conosce costruendo una riproduzione di un impronta negativa.

Nota: L’edizione che seguo in questa lettura annotata è J. Joyce, Ulisse, trad. M.Biondi, Nave di Teseo (2020). I numeri romani capitali indicano i capitoli, i numeri arabi la pagina di questa edizione. Qualora e in qualche citazione si usasse un’altra edizione verrà ovviamente segnalata.

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

“Ulisse” di J. Joyce, una lettura – 0

di Demetrio Paolin

Il 2 febbraio 1922, giusto 100 anni fa, per l’editore nonché librario, Shakespeare &Co esce Ulisse di James Joyce. La data così tonda e precisa rappresenta una occasione superba per prendere nuovamente in mano il romanzo e provare a condividere, nel corso delle prossime settimane, la mia lettura insieme a voi lettori di Lettera Zero (*). L’idea mi è tornata alla mente quando, girando tra i social, mi sono imbattuto in un post che chiedeva, non so quanto ingenuamente: “Ho comprato l’Ulisse di Joyce: come devo affrontarlo?”. L’unica risposta, sensata mi vien da dire, che sono riuscito a formulare è stata: “Prendi il libro, siediti su una sedia/poltrona e leggilo”. Se l’unico modo per affrontare un libro è leggerlo, mi sono convinto che sarebbe stato interessante tenere un diario di lettura settimanale, in cui annotare le pagine lette e dire ciò che ho pensato, immaginato, riflettuto durante la lettura in progress del libro. Ovviamente mi sono posto il problema della traduzione da scegliere: ho deciso per quella di Mario Biondi, edita da La nave di Teseo. La scelta non è stata facile: ho nella mia libreria più copie dell’Ulisse (solo il numero di esemplari della Commedia di Dante supera quelli del romanzo di Joyce), ho l’edizione – classica – della Mondadori, l’edizione della Newton Compton con la traduzione di Terrinoni, quella della Feltrinelli a cura di Ceni, quella di Einaudi con la traduzione di Celati, la Mattioli 1881 con la traduzione di Crescenzi, Giuliani e Viazzoli. E infine l’originale in lingua. Dato questo elenco mentirei se dicessi che questa è la prima volta che affronto la lettura dell’Ulisse: l’ho letto altre volte (due completamente, alcuni spezzoni più volte), ma sono convinto che le riletture siano sempre un modo nuovo e diverso per entrare nel testo. Perché, infine, ho scelto Biondi? Perché nella mia opinione, né da esperto traduttore, né da madre lingua che conosce i segreti e i trucchi che Joyce ha lasciato, Biondi è riuscito a rendere meglio la grandezza del romanzo, di cui involontariamente e per antifrasi la Woolf ha scritto il miglior giudizio: «Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario». Questa idea di bassezza e di sordidezza che la Woolf ravvisa nell’Ulisse, mi ha ricordato in qualche modo gli autori per periodo altomedievale con il loro latino rozzo, basso, imbarbarito dalle parlate volgari, ma perfettamente coerente con i temi dei loro testi – sermoni, storie di santi, storie di miracoli, di martiri – citati da Auerbach nel suo Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità e nel Medioevo (Feltrinelli), il sermo, la lingua, che Joyce usa è un sermo humilis ovvero concreto, basico, scatologico; proprio perché Joyce, come gli ignoti o meno predicatori e scrittori, che si trovano a dover scrivere nel momento di crisi e di passaggio da una realtà storica definita a qualcosa di oscuro, che ha prodotto non solo un cambio di immaginario, ma una modifica e un allentamento delle regole sintattiche, dell’uso delle proposizione e delle parole, creando una lingua totalmente nuova per i bisogni del pubblico a cui si riferiva, rivive nella stessa situazione – temporale e linguistica – con l’Ulisse. Ovvero la presunta illeggibilità de L’Ulisse è in realtà la fondazione di una diversa idea di lingua, di pubblico e di immaginario, che è quanto chiedo a un testo. Ad esempio non mi domando mai se/perché sia un classico, ma, con molta più prosaicità, perché le parole che leggo mi costringono a girare la pagina e ad arrivare fino alla fine. Un libro, per me, è sola scriptura, la lettera del testo, l’ingegnoso susseguirsi dei lemmi, della sintassi e dei periodi. Sono convinto che il libro non sia un’opera aperta ma chiusa, e che le sue ragioni sono da ricercare nel testo, dentro il testo, nelle lacune e nelle presenze, negli hapax e nelle ripetizioni e la logica compositiva di quel che viene letto. Quindi per me L’Ulisse di Joyce è un insieme di parole che si susseguono, e che formano frasi di lunghezza media, che secondo le statistiche di Franco Moretti (Un paese lontano, Einaudi) si aggirano intorno alle 7 parole, e raccontano la giornata ordinaria di un uomo.

Alcuni potrebbero chiedersi: “Questo modo di leggere può avere un senso?”. Provo a rispondere con un esempio o meglio con una fantasia. Il mio desiderio più profondo – chissà che prima o poi non abbia il coraggio di farlo – sarebbe costruire sull’Ulisse una sorta di performance artistica: prenderei una telecamera e la posizionerei fissa sullo schermo, prenderei una vecchia macchina da scrivere e incomincerei a ricopiare lettera dopo lettera, parola dopo parola, periodo dopo periodo l’Ulisse. Ho la certezza che alla fine ognuno di noi, ognuno che abbia assistito per intero a questa operazione, ne uscirebbe con una consapevolezza aumentata del mondo e della vita. L’unico modo di leggere un libro è ricopiarlo. Ecco: nelle mie vene scorre un residuo minimale del sangue di un qualche monaco irlandese che, quando ogni cosa si disfaceva (i barbari alle porte, l’impero perduto), copiava senza capire i testi antichi per ore e ore nello scriptorium; e così quando le ombre si allungavano e non bastavano le luci delle candele per vedere le lettere si stiracchiava, usciva e si dirigeva, finalmente, alla sua minuscola cella per fare compieta, poi s’addormentava e nel dormire sognava, e nel sogno c’erano bestie e draghi, e – vinta l’ultima difesa razionale – appariva il serpente e la mela e, infine, Eva, nuda, sconosciuta e nuova che diceva “Sì: lo voglio. Sì!”.

(*): Gli articoli verranno pubblicati a partire da lunedì 14 febbraio e avranno cadenza settimanale. Stiamo pesando anche di creare un canale Telegram per riunire coloro che vogliano iniziare una lettura condivisa del romanzo di Joyce e condividere spunti, riflessioni e impressioni di lettura con gli altri;

Se siete interessati potete mandare una mail dpaolin@gmail.com con oggetto: Lettura condivisa Ulisse.