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Antonio R. Daniele

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«Nessuno può mettere i miti in un angolo»: o di come Orfeo ed Euridice resistono al tempo – Parte II

di Carmen Rampino

La catabasi di Orfeo ha ovviamente continuato a ispirare altre molteplici opere, talvolta pure di nuovo a fumetti. Lo stesso Andrea Pazienza, il più alternativo, radicale e anticonformista tra i fumettisti di tutti i tempi, con Gli ultimi giorni di Pompeo in fondo non ha fatto altro che rielaborare originalmente questo descensus ad inferos. A ben pensarci, anche Pompeo fa un viaggio verso gli inferni, gli inferni della droga, e ne ottiene uno scacco. Proprio come Orfeo, ha violato ciò che non bisognava violare, in questo caso «ha violato l’interdetto più tremendo del nostro secolo, LA DROGA, ha guardato ciò che non doveva vedere e ora non è più la sua Euridice che cerca disperatamente e non potrà mai avere, ma qualcosa di diverso e ugualmente terribile» (Formento 1997, p. 5). 
Inferni, droga, mito di Orfeo ed Euridice… tanti temi diversi che possono incontrarsi e rivivere nel presente, in una modalità particolarmente interessante. Oggi scopriamo infatti che il mito può acquistare nuova linfa persino su Netflix, anche in maniera pop e di fronte a milioni e milioni di spettatori di tutto il mondo. Questo accade proprio al mito di Orfeo o, meglio, di Euridice, nell’ultimo recente successo di Zerocalcare, Questo mondo non mi renderà cattivo. Essendo una serie di animazione, il mito trova ancora una nuova forma, oltre che nuove chiavi di lettura alternative. La serie non certo parla del mitico cantore della Tracia. Infatti si tratta di una storia tutta contemporanea, una storia politica, civile, in cui la vicenda privata di un amico che torna in quartiere dopo tanti anni di assenza si incrocia con quella collettiva di un centro di accoglienza, del “pacco” contenente 35 persone rigettato da tutti. È la storia di come spesso la rabbia, il rancore, la frustrazione di un capitalismo sempre più sfrenato finisca per porci gli uni contro gli altri, creando una guerra orizzontale tra poveri che dovrebbero stare dalla stessa parte e mettere in discussione, come fanno i “dinosauri”, lo stato delle cose. I tre amici Zero, Secco e Sarah in questa avventura si trovano in commissariato e attraverso un flashback, che percorre tutti gli episodi, si capirà cosa è successo. La serie, di grande attualità, mantiene un ritmo intenso, che però richiede almeno una doppia visione. Cosa c’entra, però, il mito in una narrazione come questa? Il primo episodio, che termina con l’arrivo di Cesare dopo 20 anni, si chiude con queste parole: 

E non sapevo bene che domande fargli. Perché, c’hai presente Orfeo e Euridice? Ecco, è come se quel cojone non se girava, riusciva a portà a Euridice fuori dall’inferno e poi je chiedeva… che se fa là il fine settimana? Te sei imparata a giocà a padel? Ma ce sta un bar che proietta la serie A? Boh… e quella giustamente non je vuole risponde, perché chissà che cazzo ha passato. Me pare pure legittimo. Per questo è così difficile pure fa le chiacchiere stupide. Perché io non lo so che se chiede a uno che è appena tornato dall’inferno 

Ritornano, dunque, Euridice e il suo inferno, però in questo caso Cesare è appena tornato da una comunità di riabilitazione per tossicodipendenti. È questo l’inferno a cui si allude. La metafora, poi, viene ripresa anche alla fine del secondo episodio:

È che non ce sta Orfeo dentro a sta storia. Ce sta solo Euridice che va all’inferno, e nessuno che la va a cercà. E dopo vent’anni riesce a tornà da sola quando ormai nessuno se la ricordava più e tu te stupisci pure se non è più la stessa

A queste parole si sovrappone l’alternarsi di immagini di Euridice in tunica che torna a casa e chiede prosaicamente un passaggio in macchina a quelle di Cesare che a sua volta torna a casa. Sembra che i due si vadano in contro sulla stessa strada, fino a sovrapporsi del tutto. Ad essere persa negli inferi, dunque, non è Euridice o, meglio, non solo lei, ma un ragazzone alto e grosso di nome Cesare. Con il suo volto corrucciato e inquieto, lo stesso Cesare diventa Euridice. Come sottofondo di questo momento così intenso si ascolta Bits of Kids degli Stiff Little Fingers. È questa la novità di tale riscrittura: non si tratta solo di parole, ma di un intreccio di parole, disegni in movimento, musica, espressioni indelebili dei volti. La metafora, in questo modo, è vivida e si aggrappa agli spettatori, senza abbandonarli mai. Sebbene nella serie non verrà ripresa più apertamente, anche alla fine ritornerà alla mente quell’immagine di Euridice. Perché in fondo il senso è tutto racchiuso qui dentro, in queste note mitiche, malinconiche e agrodolci, come malinconico e agrodolce sarà il finale della serie. In questa circostanza il mito, che compare in una piccola parte, e che ha alle sue spalle secoli di storia, diventa una chiave di accesso, addirittura un pertugio per introdursi in una storia tutta contemporanea. E non è l’unica volta in cui nella serie il materiale mitico viene sfruttato. Infatti, interessante è poi scoprire che ancora prima di questo mito, sempre nel primo episodio, ne compare un altro. Zero, sicuro di non essere arrestato perché ormai ha fatto una serie per Netflix e può fare quello che vuole, viene rimproverato dalla mamma Lady Cocca che gli dice al telefono: 

vabbè sei troppo securo de te. Ricordate sempre il figlio de Dedalo, coso, come se chiama, Icaro, che stava in fissa de volà sempre più in alto senza mai mette ‘na sciarpetta per riparasse la gola che fine ha fatto. 

Contemporaneamente scorrono le immagini di Zero vestito da Icaro con la tunica greca bianca, ma con il riconoscibilissimo teschio sul petto, e le ali e infine si legge l’epitaffio: Icaro portato via da una brutta bronchite. Questa divertente commistione alto-basso oltre a suscitare il riso, ci permette di riflettere ancora su quanto terribilmente popolari possano essere i miti. Molte volte il fumetto, didascalicamente, è stato usato per trasmettere in modo accessibile dei miti o i grandi classici della letteratura, altre volte, però, può accadere il contrario: il mito è talmente popolare da poter facilitare la comprensione di una storia. 

TESI CITATI.
Brian Michael Bendis – Mark Bagley, 2004, L’uomo ragno. Identità segreta, in “I classici del fumetto di Repubblica. Serie oro”, Modena, Panini.
Dino Buzzati, 2017 (1° ed. 1969), Poema a fumetti, Milano, Oscar ink.
Giovanni Formento, 1997, Il mito in Buzzati e Pazienza, un parallelo impossibile o una staffetta riuscita?, in «Bolle», n. 27, dicembre.

In Balloon

«Nessuno può mettere i miti in un angolo»: o di come Orfeo ed Euridice resistono al tempo – Parte I –

di Carmen Rampino

«Ti interessi di mitologia greca, Justin?»
«Non proprio signore».
«Mai sentito parlare del mito di Aracne?»
«Direi di no, Mr. Osborn».
«Secondo la leggenda, Atena – conosci Atena, vero? – sentì parlare di questa donna sulla terra – una semplice mortale, come te e me – che era una tessitrice migliore di lei». 
[…]
«Atena non fu affatto felice di questo, e scese sulla Terra per distruggere le creazioni della donna. Quando la ragazza si rese conto di quel che era successo – cioè che aveva offeso gli dei e che tutti i suoi lavori erano stati distrutti si impiccò. Atena ebbe pietà della povera ragazza, le bagnò la fronte con un liquido magico e disse: “tu non morirai, Aracne. Sarai invece trasformata e tesserai per sempre la tua tela”. Alle parole di Atena, Aracne si rimpicciolì e divenne nera. Prima le caddero il naso e le orecchie, poi le sue dita si trasformarono in zampe. Quel che restava di lei divenne il corpo e da esso iniziò a tessere la sua tela» (Bendis-Bagley 2004, p. 23). 

Abbiamo appena letto l’incipit – una sorta di proemio – di un recente remake del più famoso tra i supereroi Marvel, l’Uomo Ragno, ideato nel 1962 da Stan Lee e Steve Ditko. Tale riscrittura è Ultimate Spider-Man, scritto da Brian Michael Bendis e disegnato da Mark Bagley a partire dall’ottobre del 2000. Questa si presentava come una rilettura contemporanea del celebre supereroe, rilettura che mirava a far emergere anche le sfumature più complesse, contraddittorie e umane del personaggio: un adolescente alle prese con i superpoteri, ma anche con costanti sensi di colpa, rimorsi, la crescita, e l’amore. Che Spider-Man sia uno dei miti della storia del fumetto mondiale – intendendo per mito un simbolo universale che concentra i sogni e i desideri di una intera comunità – è cosa certa, ma che esso stesso possa prendere le mosse da quelle gesta di dei e semidei che altrettanto chiamiamo miti è cosa ancor più interessante e affascinante. In ogni poema che si rispetti la prima soglia di accesso è data da un proemio, quella parte in cui vengono condensati i temi dell’opera e in cui non si manifesta una vera e propria azione. Nel caso in esame questa parte così delicata e importante è occupata proprio dal mito di Aracne, perché è proprio da qui che tutto trae origine. La capacità del mito di travalicare i secoli è senza dubbio uno dei suoi più peculiari caratteri. Tra i materiali mitici più sfruttati nella storia della letteratura vi è senz’altro quel vecchio ma mai logoro archetipo di Orfeo ed Euridice. Solo in ambito letterario e solo in ambito italiano, si potrebbero citare Orfeo e Proserpina  (1929) di Sem Benelli, il racconto L’inconsolabile tratto dai Dialoghi con Leucò  (1947) di Cesare Pavese, l’Orfeo vedovo  (1950) di Alberto Savinio, L’altra Euridice (1971) che oggi si può leggere in Tutte le cosmicomiche  di Italo Calvino, Il ritorno di Euridice in L’uomo invaso  (1986) di Gesualdo Bufalino e molti altri, e questi solo nel Novecento, altrimenti l’elenco potrebbe estendersi fino a comprendere la Fabula di Orfeo di Angelo Poliziano, scritta fra il 1479 e il 1480, l’Orfeo di Monteverdi (1607) fino all’Orfeo ed Euridice di Gluck (1762). Ovviamente le riscritture di miti classici comportano delle novità e dei nuovi spunti di lettura e a volte anche delle reinterpretazioni che possono risultare esagerate, fastidiose, se non addirittura scandalose. Ed è parzialmente questo ciò che accadde nel 1969 quando fu pubblicato Poema a fumetti da Dino Buzzati. In questo caso il disagio e il turbamento degli intellettuali derivava in gran parte dalla forma scelta da Buzzati: il fumetto. Come era possibile che uno scrittore così “serio” come il bellunese potesse dedicarsi ad un divertissement come il fumetto? Eppure la lettura di questo capolavoro si rivela un’esperienza di autentica poesia e come le altre riscritture permette di affrontare questioni universali, come l’apparente assurdo gioco della vita e della morte. Qui Orfeo è diventato Orfi ed è un cantante, anzi un cantautore, che vive nella Milano industrializzata degli anni Sessanta, figlio di una famiglia di nobili decaduti. Canta e suona la chitarra nel locale notturno Polypus, dove ogni notte manda in estasi tanti minorenni. Una sera, dalla finestra della sua casa in via Saterna, vede scendere da un’auto e entrare in un edificio attraverso una porta chiusa Eura, giovane ragazza di cui è innamorato. Il giorno dopo scopre che Eura è morta per un male misterioso. Così decide di andare presso quella porticina in cui l’aveva vista passare, perché vuole scoprire a tutti i costi dov’è Eura. Qui gli viene detto da uno strano uomo verde che non può passare, perché non è morto. Orfi, però, non si ferma, inizia a suonare la chitarra che ha portato con sé e alla fine la porta finalmente si apre. Non si trova in un giardino, come immaginava, ma in una stanza chiusa. Il primo essere che vede è una donna. È questo l’Ade e a guardia di esso non ci sono mostri, ma donne, le creature orribili che rappresentano una tentazione costante per il protagonista e che dovrebbero far desistere Orfi dalla sua impresa. Inizia il descensus ad inferos, ma per poter incontrare Eura deve cantare e suonare per i dannati ricordando loro le bellezze della vita alle quali essi guardano in modo nostalgico. Dopo aver superato la prova, riuscirà a rincontrare Eura. Quando la vede lui vuole fare di tutto per riportarla nel mondo dei vivi e con il suo orologio le ricorda ossessivamente che il tempo sta per scadere e devono affrettarsi. Lei, però, sa benissimo che non potrà in ogni caso seguirlo, perché non è possibile farlo. Richiede solo un abbraccio, ma lui non riesce neanche a fare questo, pensa di potere tutto con la sua chitarra, ma questa volta non è così, anche il canto ha un limite: «povera favola di Orfeo. Anche se tu non ti volterai indietro, non servirebbe lo stesso. Adagio, ti prego, Orfi, io sono stanca. Tutti qui siamo stanchi» (Buzzati 2017, p. 205). È la rottura della quarta parete, è il momento metaletterario per eccellenza, in cui si esce dalla finzione e ci si richiama per la prima ed unica volta alla favola di Orfeo, quel buon vecchio mito che, però, proprio in questo punto cambia radicalmente forma. Lei sa bene che i miti non esistono e che non si può sfuggire dalla morte. La colpa non è di Orfi o di Eura. A prescindere dalle loro azioni, l’ineluttabilità della morte che non si può sconfiggere prevale. Eppure quando Orfi, preso da una forza invincibile, si ritrova in via Saterna e l’uomo verde, che ricompare, gli dice che tutto è solamente un sogno ed Eura dorme un sonno eterno sottoterra, si accorge di stringere tra le mani l’anello di lei, l’unico oggetto posseduto dal suo corpo nudo che Orfi, fuggendo, aveva rimosso. «E allora, questo anello? Ma lo sconosciuto non c’era più. La strada era completamente deserta» (Buzzati 2017, p. 219). Tutto rimane così, sospeso tra la tormenta di anime in pena (cfr. Buzzati 2017, p. 220), gli ultimi re delle favole che vanno in esilio (cfr. Buzzati 2017, p. 221) e le nubi dell’eternità che passavano lentamente (cfr. Buzzati 2017, p. 222). 

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte VII

di Demetrio Paolin

In FK, Parte quarta, Libro dodicesimo, cap. IX, leggiamo: «Amleto ce l’hanno gli altri, a noi per ora sono toccati i Karamazov». Durante la lettura si è parlato molto del romanzo saggio e dei rapporti tra La montagna incantata e i FK. Si potrebbe citare in questo contesto il lavoro sul romanzo saggio di Ercolino, dove il testo di Mann è visto come il prototipo di romanzo-saggio, perché i dialoghi tra i personaggi sono il movimento verso la verità, che si ottiene proprio lungo le battute tra di loro, che cambiano e si modificano lungo la narrazione, la struttura dei FK, dice sempre Ercolino, è invece tragica, i personaggi hanno un destino/necessità/etc etc e quello è dall’inizio alla fine. Paradossalmente la citazione sembra fornire appigli proprio alla interpretazione di Ercolino, ma nella mia esperienza di lettore questa idea che i FK siano una tragedia non è convincente proprio alla luce della citazione in cui si affiancano Amleto e i Karamazov. 
Nei personaggi della tragedia il destino è già deciso, pre-iscritto nella loro vita: Edipo può fare ciò che vuole, ma infine egli deve uccidere il padre e sposare la madre. C’è nel personaggio tragico qualcosa di assolutamente immobile, fisso e predefinito, che in nessun modo è riscontrabile nei personaggi dei FK. L’Ivan della prima parte non è l’Ivan della seconda: l’euclideo lascia spazio al febbricitante folle; neppure Alesa è identico: la disperazione che lo attanaglia nella morte di Zosima è differente dalla professione di fede della fine del racconto; un discorso simile vale anche per Dimitri: il balordo della prima parte non è simile all’uomo disposto ad accettare il suo destino di fuggiasco e di scacciato dal paradiso terreste della Russia. 
Mi pare che i personaggi abbiano degli sviluppi e in alcuni casi anche sostanziali: ma non sono i dialoghi a produrre queste modificazioni esistenziali. Negli FK i dialoghi sono quasi sempre degli a parte, in cui viene dimenticato l’interlocutore. Quindi D e Mann sono distanti, su questo Ercolino ha pienamente ragione, perché ne La montagna incantata il dialogo è una dialettica produzione della verità, mentre in FK particolarmente i dialoghi spesso girano a vuoto e prevale l’impressione che questi siano monologhi intrecciati, come se il personaggio parlasse a sé e avesse bisogno di sentire la propria voce pronunciare le parole a voce alta. 
In tal senso la pluridiscorsività che Bacthin individua come una delle caratteristiche principali dell’opera dei romanzi di D non è tanto orchestrazione dei diversi tipi di linguaggi, quanto la parcellizzazione degli stessi: ogni personaggio diventa il suo linguaggio e il suo discorso, contiene in sé la sua verità formalmente comunicabile, ma non condivisibile con gli altri personaggi del romanzo.  Il riferimento all’Amleto e l’intuizione di Stenier in Tolstoj o Dostoevskij, dove D viene descritto come un genio essenzialmente drammatico sono a questo punto del ragionamento centrali. Abbiamo sostenuto che le battute di dialogo tra i protagonisti suonano come monologhi; ora, il monologo è primariamente una struttura drammatica, nella quale il protagonista parla da solo, mette fuori ciò che ha dentro: è una tecnica narrativa che inscena l’interiorità, ma nella realtà fattuale dell’opera, nella sua rappresentazione, il protagonista – durante il monologo – non è solo, non parla da solo, ma parla al pubblico, al quale – concretamente – vengono indirizzate le parole. La mia impressione è che FK, come gli altri romanzi di D, siano dialogici, ma che il dialogo non si risolva all’interno del testo, ma tra il personaggio e il lettore: il personaggio comunica al lettore la sua verità, non la dice per convincere o per convincersi, ma semplicemente la enuncia per quella che è in modo che il lettore la conosca. 
Questo parrebbe confermare l’ipotesi di Ercolino, ma il problema sta nella stoffa della verità esposta nei monologhi; infatti, la dose di verità che D affida a questi “dialoghi” paralleli si modifica lungo il percorso del romanzo; i personaggi dei FK sono dei caleidoscopi, la loro verità non è mai la stessa, la loro parola muta di volta in volta. Si pensi solo al poema dell’Inquisitore di Ivan e al dialogo tra Ivan e il diavolo; è chiaro ai nostri orecchi di lettore che tra le due scene sia avvenuto qualcosa che ha prodotto una radicale diversità tra il primo e il secondo. Il loro destino, il destino dei personaggi dei FK, non è tragico, ma al massimo comico, la parabola di Ivan in tal senso è emblematica perché rappresenta una costante e continua umiliazione di sé, è una esperienza di vergogna e di viltà, che è un topos (il riferimento è ad Agamben Categorie Italiane) della narrativa.
L’unico personaggio nel quale sembra sussistere, per un certo grado di narrazione, il germe della tragedia è Dimitri. Anzi, potremmo spingerci a dire che il nocciolo della sua interiorità sembrerebbe essere tragico. Sin dal suo apparire nelle pagine Dimitri compie ogni possibile gesto per essere percepito in tal senso. Si presenta come un parricida, il cui destino è segnato: tutto sembra volgere a suo favore, ma lui non ha ucciso il padre, lui non è Edipo, la sua non è una tragedia ma un semplice errore giudiziario. 
Ma il riferimento ad Amleto? Non è Amleto una tragedia? Per rispondere a queste domande concentriamoci su un’immagine del dramma di Shakespeare: Amleto entra in scena, dopo aver visto lo spirito, ha in mano un libro, legge (Amleto, II, 2), così alla richiesta di Polonio «Cosa leggete mio Signore», Amleto risponde «Parole, parole, parole». Viene da chiedersi perché Shakespeare dopo aver fatto incontrare lo spettro e Amleto, decida di far entrare in scena il protagonista con libro, e perché questo libro viene descritto come un insieme di parole vuoto? Che legame c’è tra il libro e lo spettro, tra le parole dello spettro e le parole del libro? Nel Piccolo Organon Brecht fa una osservazione interessante, legando il destino del protagonista e alla temperie culturale: «Vediamo dunque come in tali circostanze un giovane -ma già adiposo- gentiluomo faccia un uso assai maldestro della nuova scienza, appresa da poco all’università di Wittenberg. Nei conflitti del mondo feudale, la scienza gli è di impaccio. Di fronte ad una realtà assurda, la sua ragione manca di senso pratico ed egli cade vittima della contraddizione tra il suo ragionamento e la sua azione». 
Amleto che legge libri è un rappresentante della nuova cultura, della nuova idea di uomo: ha frequentato le istituzioni più moderne d’Europa, è figlio di quel riso, di quella volontà di bellezza, di quel desiderio di sapere che, ad esempio, Rabelais mette in bocca al protagonista del suo poema; eppure, dopo l’apparizione dello spettro tutto quel sapere e ognuno di quei libri diventano parole vuote, ripetute. Perché   avviene questo? Perché, stando a Brecht, lo spettro ha mostrato ad Amleto come quel mondo – che la cultura umanista voleva cancellare, che immaginava finito – quel mondo di serpi, magie, maledizioni, oltretomba è ancora presente e reclama in un certo senso il suo intervento. Rispetto a quel mondo, l’intelligenza razionale di Amleto è completamente inservibile e inutile. Amleto vive, quindi, in un momento di crisi, di cambio di paradigma sociale, antropologico e politico che è, se vogliamo, una delle testi che Schmitt definisce con chiarezza in Amleto o Ecuba. 
Tornando a FK, possiamo notare come tutti i personaggi leggano, e questo loro leggere è spesso sentito come “fuori fuoco” rispetto a come essi si presentano sulla pagina; c’è da sottolineare come i Karamazov siano dei lettori “pessimi” perchè la maggior parte non comprende quello che legge: né esempio più clamoroso Smerdjakov, circondato di libri in francese, che appunto per lui non sono  altro che parole. Il discorso che Brecht e, in un certo senso, Schmitt fanno per Amleto, mettendo in evidenza come la sua crisi, la sua modernità, la sua inquietudine che tanto ci affascina da sembrare nostra, sia proprio il passaggio tra due mondi, tra due sistemi politici, tra due realtà, potrebbe essere declinato anche per i FK, la cui ambientazione temporale è proprio dopo l’abolizione della servitù della gleba (un momento di certo delicato all’interno della forma stato che ebbe la Russia). Questi personaggi sono catapultati in un mondo che non capiscono, sono ansiosi di uccidere il padre e di vedere la modernità, ma contestualmente ne sono sopraffatti, come Amleto hanno intuito qualcosa di nuovo, grande e moderno, ma come il principe danese, durante la narrazione, qualcosa li ricaccia indietro, rendendo impossibile la loro emancipazione. 
Date queste premesse possiamo dire che Amleto è una tragedia sui generis, anzi chiunque assista a una sua rappresentazione o legga il testo l’impressione che il protagonista sia maggiore, più ampio e più complesso dell’opera in cui è contenuto: Amleto non è un eroe tragico, così come lo intendiamo nel teatro, ma è in realtà l’eroe che mette in crisi l’idea della necessità, del destino, che rinvia, ripensa, re-immagina la sua vita e le sue azioni; esce dalla stessa trama dell’opera di Shakespeare. Biontani nel suo saggio su Amleto dichiara che non siamo noi a interrogare e interrogarci su Amleto, ma è lui che non smette di interrogare noi. D nei FK compie qualcosa di simile, quindi il riferimento all’opera di Shakespeare è molto profondo: in primo luogo Amleto è un’opera drammatica che pare essere la prediletta da Dostoevskij (ricordiamo Steiner): Dostoevskij è uno scrittore che tende a costruire testi come se fossero atti drammatici, scene in cui i personaggi parlano, dialogano, ognuno con la propria lingua e alcune volte questi linguaggi tra di loro così diversi non cooperano: ne può essere un esempio il dialogo tra Ivan e Alesa. Amleto è un’opera drammatica spuria, dove Shakespeare gioca con la stessa struttura, inizia con una tragedia della vendetta, vira verso la black-comedy, passa al teatro nel teatro, conclude nuovamente come una tragedia il cui finale per quanto simile a quello di una tragedia di vendetta è a ben vedere molto diverso. 
Shakespeare prende e utilizza ciò che gli serve dalla tradizione, dalla storia, dalla modernità del suo tempo e lo porta dentro la sua opera che si fa aperta; è in questo senso veramente una sorta di menippea, di genere non genere, di ordine narrativo disordinato. Anche nei FK entrano in gioco diversi repertori narrativi: le agiografie dei monaci, i testi filosofici, il giallo, il romanzo gotico, il romanzo lacrimevole, la cronaca giudiziaria: tutto viene usato senza soluzione di continuità, senza una vera spiegazione, senza un ordine, in una sorta di “ordine disordinato”, che potrebbe essere una plausibile definizione del romanzo di D.  I FK, così come L’Amleto, possiedono quindi una uguale e tenace idea, tipicamente romanzesca, ovvero quella di produrre una immagine dell’uomo nel tempo che passa, mentre il tragico è mosso da un’altra istanza narrativa ovvero di dare l’immagine dell’uomo nell’eterno immutabile.

In mdp

Oppenheimer. Visione e cameo di una distruzione

di Francesca Bellucci

Oppenheimer é un film sorprendente, anche per chi crede di aver interiorizzato le dinamiche illusorie, fisiche e metafisiche di Nolan.

É una biografia, pur non essendolo. Non si limita a raccontare la storia dell’inventore della bomba atomica, a tirarne su un’effigie ripulita dal peccato, come spesso avviene nelle produzioni americane, né a demonizzarne eticamente lo sviluppo. Oppenheimer è la storia di un uomo che appartiene a una specifica categoria di esseri umani, casualmente impressi nel flusso di un periodo storico ben determinato che schematizza irreversibilmente la loro vita. Non c’é etica o morale che valga la pena di essere posta in esame sul banco degli imputati, non è ciò che realmente preme a Nolan. É la rappresentazione umana in sé, il peccato di sapersi superiori, a veicolarne maggiormente gli interessi. 

Oppenheimer è un film monolitico, che scopre il velo di un uomo complesso, dannato e condannato. E questa dannazione la manifesta in modo sublime, con la rappresentazione di un corpo, quello di Cillian Murphy, asciutto, inadatto a indossare qualunque divisa che non sia quella del fisico imprigionato dalla fisica stessa, solo apparentemente attratto da qualcosa che non sia dimostrare che i calcoli delle sue visioni sono la realtà quantica di un mondo troppo ottuso per andare oltre la materia concreta di un fuoco che divampa e distrugge parte dell’umanità.

É il corpo fintamente nudo posto a interrogatorio, spogliato, davanti all’amante, dei dettami morali che ha scelto di sposare e che pure mantiene nelle cosce accavallate, nella mano delicata che si poggia sul bracciolo della poltrona.

Oppenheimer é monografia e dialogo, un parlare serrato e inarrestabile, che senza i tempi fermi del punto procede accavallando le frasi, le nozioni dei fisici, le accuse dell’illegittimo processo mosso al protagonista, le risposte repentine e inarrestabili della moglie Kitty, interpretata da Emily Blunt, durante il suo ascolto dei fatti.

Il film può essere scisso in due sezioni principali: la causa e l’effetto.

Le cause della narrazione seguono la strada tracciata da due perpendicolari: la prima è la storia della fisica. Un giovane  Oppenheimer che incontra nel suo percorso di vita le grandi menti del ‘900 con le quali cambierà le sorti della scienza. La seconda è la storia dei popoli mondiali. Lo schermo posto sulla parete su cui sono proiettate guerre, trattati di pace, altre guerre ancora, un incessante correre verso e contro la morte, nella convinzione di poterne controllare il flusso, di avere il diritto di credere quale sia la direzione corretta verso cui piegarla.

Quando il potere materiale dell’uomo fa appello a quello della scienza, le due rette si incontrano, segnando eternamente la Storia. Dal colloquio tra il generale Groves e Oppenheimer il film aumenta il proprio ritmo e le sequenze narrative diventano sempre più incalzanti.

La costruzione di Los Alamos, il reclutamento degli scienziati, le riunioni e i momenti di discussione sono mossi da uno spirito che agli occhi dello spettatore appare puro. La bellezza di menti che vedono oltre il monolite materico del mondo, che sono in grado di scinderlo e da quella “fissione” creare qualcosa di nuovo. É quando la ricerca raggiunge il suo scopo che la narrazione, pur procedendo inarrestabile, si frammenta in visioni e camei, attraverso i quali gli effetti di quell’atto creativo si scatenano nella loro potenza più disarmante.

Visione é l’esplosione, cameo é la fotografia del gruppo di lavoro che si appresta a vedere la sua creazione assumendo la posa di bagnanti indolenti di fronte a una luce dolorosa.

Cameo é l’invocazione da tifoseria fatta ad Oppenheimer dai suoi collaboratori, visione é la brutalità che solo gli occhi del fisico riescono a scorgere in quelle grida di gioia, pronte a consumarsi in corpi putrefatti. Creazione e distruzione, gioia e dolore.

Terminati i flashback in cui si ripercorrono gli eventi legati alla costruzione della bomba e all’esplosione del 6 agosto del ‘45, l’obiettivo cessa la sua corsa alle spalle di Oppenheimer, ma si ferma in un punto, mirando al volto del fisico e di tutti coloro che, mentre lui percorreva la sua retta, hanno lavorato al di sotto di questa. É come se a fissione fosse sottoposta anche la sua vita. Un evento precipita sulla sua storia, provocandone altri e altri ancora. Ma non c’è alcuna epicità, tutto si riduce a qualcosa di piccolo, come gli atomi, ma più infimo: la bassezza dell’uomo, il suo ego, la sua invidia, uniti al senso di colpa e al desiderio di perdono.

La storia si cala nelle mani degli uomini e sono quelle stesse mani a scegliere se rigettare il caso o farne azione irreversibile.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte VI

di Demetrio Paolin

Il dialogo in FK assolve una funzione fondamentale, prima di avvicinarci con attenzione al cuore di questa struttura narrativa proviamo a fare un discorso più generico. I dialoghi all’interno dei FK sono spesso lunghi, delle vere e proprie “sparate” che alcune volte mettono in difficoltà anche il lettore più attento. In un certo senso D non fa che portare alle estreme conseguenze quella che era una caratteristica del romanzo ottocentesco, molti testi sono colmi di queste tirate lunghissime, ne sono un esempio le opere di Balzac a cui sicuramente Dostoevskij guarda. I dialoghi di Balzac hanno, però, una stoffa diversa: mi pare che spesso in Balzac i dialoghi siano quelli in cui uno dei due narra per pagine e pagine un fatto/accadimento che l’altro deve sapere – potremmo risolverla così: IO racconto a TE una cosa che è accaduta a EGLI in presenza di ME. L’evoluzione moderna di questa tecnica sarà il narratore di Conrad (Lord Jim e Cuore di tenebra). I dialoghi nei FK sono, a mio avviso, differenti, e potrebbero avere motivazioni, legate una alle fonti e una più narratologica.
Bachtin sostiene che la struttura del romanzo, non solo di quello dostoevskijano, derivi dalla satira menippea, quella sorta di ibrido tra poesia, prosa, tragedia, commedia e dramma satiresco, genere minore nell’antichità, ma che si è dimostrato duttile al mondo moderno, diventando lo strumento narrativo per eccellenza. Nel fondo dei dialoghi di D, però, più che la menippea troviamo un neppure troppo camuffato Platone, che è anche scrittore sopraffino (il Fedone, il Convivio, il Fedro, la stessa Apologia sono testi bellissimi al di là che siate d’accordo con la sua visione dell’essere etc etc). Ora prendiamo Repubblica di Platone: è un testo vivace, pieno di colpi di scena, di scambi, di miti, di posizioni limite, tutto giocato sul dialogo e su lunghissimi ragionamenti ora di uno ora dell’altro. C’è da sottolineare che quello di Platone non è un dialogo mimetico, non riproduce la situazione in cui due che parlano, ma è la messa in atto di un metodo di pensare (la dialettica). Le battute di Socrate e degli altri protagonisti si organizzano come pensieri, anzi come lo svilupparsi del pensiero, come lo srotolarsi davanti a noi dei ragionamenti, quelli di Repubblica sono personaggi non in quanto agiscono, ma in quanto pensano. 
Il dialogo è il modo più semplice per narrare l’interiorità che, almeno fino a Freud, non aveva strutture per essere esplorata del tutto. Il dialogo platonico è una messa in scena del pensiero che si pensa e, nel farsi, si dice. In Platone, però, tale struttura narrativa ha uno scopo: il giungere ad una verità, il passare da una situazione di ignoranza a una situazione di sapienza. Se vogliamo è questo il motore narrativo delle opere platoniche, la messa-in-scena della scoperta della verità. In D, come vedremo successivamente, questo è vero solo in parte: D non ha per nulla lo spirito maieutico di Platone nei suoi dialoghi. Ciò che D prende o ri-utilizza da Platone è il dialogo come estroflessione del pensiero; le battute dei dialoghi platonici sono momenti in cui il pensiero dei vari personaggi viene detto. Allo stesso modo nei FK i protagonisti non pensano, ma dicono ciò che pensano a un altro. Il dialogo tra Dimitri e Alesa è sintomatico di questo (FK, Parte prima, libro terzo, cap III-IV-V): noi sappiamo cosa pensando di sé, degli altri, della loro interiorità perché lo dicono. In un certo senso D utilizza Platone tradendolo, ne utilizza una struttura narrativa, ma la snatura non usandola come strumento dialettico, ma è possibile concepire un dialogo che non sia dialettico? La risposta nel capitolo successivo.
Per ora osserviamo un’altra stravaganza dei dialoghi dei FK legata al narratore: infatti, noi non dobbiamo dimenticare che il romanzo è scritto/raccontato in prima persona, che dichiara di conoscere i fatti e le persone, ed è quindi sullo stesso piano dei personaggi e dei fatti che racconta. Questa prima persona è attendibile? No, è in realtà una terza persona camuffata in prima, che torna ad essere prima testimoniale solo nelle parti in cui racconta il processo, dove appunto si fa stenografa delle due arringhe. 
Come possiamo credere ad un narratore in prima persona che   racconta con precisione ciò che si dicono Ivan e Alesa? Come può un narratore in prima persona conoscere gli intimi segreti del cuore di un uomo? La riposta più logica è “non può”, a meno che questi non vengano detti a voce alta e egli non sia presente “in qualche modo” (mi viene in mente il mio amato King Lear: «prenderemo su di noi/ il mistero delle cose come se fossimo le spie di dio») a questi dialoghi. La presenza fantasmatica di questo narratore è il primo patto di sospensione di credulità che D stipula con i lettori: senza questa possibilità, senza questo nostro credere che egli può ascoltare ed essere presente a questi dialoghi in cui i protagonisti non si parlano ma esprimono la propria interiorità, non ci sarebbe il romanzo. 
È chiaro che tale dato artefatto narrativo, alle nostre orecchie educate ai borbottii della nostra mente (pensate a Joyce o Svevo o Woolf) riprodotte dei romanzi, ci pare barbarico e antico. Personalmente tornano alla memoria alcuni passaggi dell’Iliade che descrivono e rappresentano i sentimenti: la rabbia, la furia etc etc non escono dall’uomo ma lo avvolgono, lo coprono e lo possiedono, come se rabbia, furia, amore qualsiasi sentimento&moto fossero esterni all’uomo, che in particolari casi e accidenti prendessero possesso di lui in un movimento dall’esterno verso l’interno. L’uomo in D, così come in Omero, è una soma, è vaso vuoto che di volta in volta viene colmato fino all’orlo di un sentimento, di un moto dell’animo. 
Viene, infine, da chiedersi: Perché e come parlano i personaggi dei FK? La risposta è: essi parlano come Amleto.

In Schede

Attraversare lo specchio – Rec. a “Scrivere il perturbante”

di Umberto Mentana

Ho sempre provato una irrefrenabile attrazione per il “weird” ovvero  l’inquietante,  quella sensazione che provoca straniamento e viene chiamata Perturbante.  Non è un caso, infatti, che io abbia dedicato un libro a R.L. Stine e che le mie prime letture siano state essenzialmente le storie pubblicate nella serie Piccoli Brividi.

 Il libro di Giorgia Tribuiani pubblicato qualche mese fa per Dino Audino Editore,  Scrivere il perturbante ( primo volume di una “trilogia del mistero”) è un saggio che illustra tutte quelle procedure che sollecitano interessi in voga e che richiamano la mia stessa attenzione: teorie e tecniche psicologiche, un fenomeno sempre più diffuso”

Dopo una prima parte prettamente teorica, in cui è ben indicizzata vasta produzione dedicata al tema del perturbante e all’interno della quale spiccano i nomi di H.P. Lovecraft, Stephen King, Edgar Allan Poe, E.T.A. Hoffman, Todorov, Freud, considerati “numi tutelari”, Tribuiani sottopone alla nostra attenzione studi più o meno recenti come quello di Davide Borghetti (Il perturbante. Paura e inquietudine nel quotidiano, 2018 ndr), Mark Fisher o Francesco Corigliano (La letteratura weird – Narrare l’impensabile, 2020 ndr). Questa è una sezione a mio parere riuscitissima, proprio perché Tribuiani, opera una summa efficace delle molteplici fonti e la veicola attraverso un discorso fluido e “in progressione”, partendo  dal concetto delle “Tre paure” proposto da Stephen King nel suo Danse Macabre, arriva alla descrizione dello spaesamento cosmico-architettonico del monolite di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.

La forza di questo libro è dunque, e soprattutto, questo: aver sviluppato gli elementi manualistici, di cui è impregnata l’intera seconda parte del libro, attraverso una componente raffigurabile, tangibile, visiva. Numerosi sono gli esempi di interi brani della letteratura in esame ma, per lo più, le riproposizioni sono regole di un gioco intrapreso ( impostato) con il lettore e che va al di là della sola pagina. L’autrice ci propone queste “perturbazioni” mostrandoci come, effettivamente, si può provare e trasmettere la paura, per esempio come ritrovare una routine scombinata quando il conoscibile diviene non conoscibile, oppure un luogo domestico che materialmente non rispetta le dovute proporzioni che ci aspetteremmo e che sappiamo solitamente ritrovare, elementi anatomici o personalità duplicate, raddoppiate, fino a passare in rassegna una rinnovata “borsa degli attrezzi” del perturbante: dall’utilizzo esclusivo di un certo tipo di narratore, ai luoghi perturbanti alle tecniche narrative d’adozione per eccellenza, dalle tipologie di conflitti, agli strumenti per infondere tensione al particolareggiato uso del dialogo, ai simbolismi e alle ripetizioni tematiche presentate come immagini ricorrenti.
Tutto questo alternando naturalmente maestri dello storytelling destabilizzante come Stephen King, Roman Polanski, William Peter Blatty, Shirley Jackson, Stanley Kubrick, Ray Bradbury, David Lynch a nomi più recenti come Thomas Ligotti, Joe Lansdale, non disdegnando naturalmente anche Italo Calvino o Dino Buzzati che ben riescono a sposarsi in questo luogo comunicativo che risulta essere il libro di Giorgia Tribuiani pieno di stimoli, avvertenze e inquietudini. 

Nella fase conclusiva, il libro ci pone la domanda “Di cosa hai paura?”, un quesito che ritroviamo anche nelle prime pagine del volume e al quale Tribuiani, non  fornisce  risposte specifiche ma, da romanziera navigata e soprattutto da insegnante utilizza per portare lontano il lettore, oltre quei limiti conosciuti. Ci restituisce  una dimensione in cui non ci sentiamo più sicuri, circondati da geometrie non convenzionali e da ritornanti che non temono di arrestare la loro corsa e così, mentre noi siamo intenti a leggere, qualcuno si nasconde sotto al nostro letto,  qualcuno che ha il nostro stesso viso ma che presenta ugualmente qualcosa di diverso.

Scrivere il perturbante di Giorgia Tribuiani è dedicato a Giulio Mozzi con cui la scrittrice dirige la Bottega di narrazione, scuola di scrittura creativa per la quale ha ideato e conduce annualmente il “Laboratorio del mistero” dedicato alla narrativa perturbante e fantastica.

Giorgia Tribuiani

Scrivere il perturbante. Modelli, tecniche, strategie

Roma, Audino, 2023, € 18,52

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte V

di Demetrio Paolin

Il romanzo può essere una esperienza religiosa? La rappresentazione (teatrale, musicale e cinematografica) possiede ancora in sé qualcosa di sacro come l’entrata in un recinto, luogo di separazione dal mondo circostante, ma questo non può avvenire per il romanzo, che è una forma più laica e profana di comprensione del mondo, di analisi delle cause e degli effetti del reale: più della scienza, che in qualche modo arriva a una soluzione con una forma chiara e una lucida decisione nel dire, il romanzo consegna il lettore a un’assenza di perché, e lo consegna solitario in questo luogo senza risposta. Il romanzo non è una esperienza religiosa o, meglio, che si riduce alla sola esperienza religiosa. 
Ritorniamo ai FK, prendo le mie mosse dalle critiche mosse da Nabokov a D: «I lettori non russi non comprendono due cose: che non tutti i russi amano Dostoevskij, e che la maggior parte dei russi che lo amano, lo venerano come mistico più che come artista. Era un profeta.»
È il rischio che si corre con D e in particolare nei FK dove l’esperienza del mistico e del profeta sono all’ordine della pagina. Leggere D come se fosse un testo sacro è fuorviante, perché ciò produrrebbe una essenziale dimenticanza, ovvero che D ha scritto opere di finzione&immaginazione. Quale sia la differenza tra testo sacro e romanzo, che è poi la differenza tra la Bibbia e l’Odissea ad esempio, mi pare semplice, o almeno a me pare semplice: la Bibbia può essere letta come testo narrativo, ma nonostante questo per chi crede rimane un testo che afferma alcuni precetti di fede, mentre un romanzo non può mai assurgere a testo sacro. 
Il rischio che corriamo è legato all’immaginario di D, che è appunto intriso di religione, di immagini cristologiche, di colpa, vergogna e peccato, ma se leggiamo questo romanzo e questo autore solo alla luce di tale specchio, abbiamo una percezione ristretta di D.
Nelle pagine de L’arte del romanzo Kundera scrive una professione di fiducia nel romanzo, confessando che sceglierà sempre la parte di Chisciotte. Ecco, non dobbiamo mai dimenticare che D, come tutti grandi narratori, come chiunque voglia scrivere un romanzo, era/è/sarà dalla parte di don Chisciotte, di ciò che rappresenta. La religione è anche una norma, anzi, potremmo dire che essa è un normare le cose, uno stabilire leggi precise per dati comportamenti; il romanzo è un movimento che scarta questa normazione sin dall’inizio. Il romanzo nasce anzi da uno scarto, dai fogli di carta gettati per terra che il lettore legge: non è casuale che all’inizio del romanzo di Cervantes Chisciotte legga anche i fogli lasciati cadere per terra. Il romanzo è una apertura, un uscire, un camminare, è un imbastardirsi, uno sporcarsi: cosa che i personaggi dei FK fanno oltremisura. Se quindi dovessimo trovare una parola, una sola, che possa indicare il romanzo, definirlo, metterlo in una sorta di paradossale ordine di lemmi, diremmo che il romanzo è la possibilità. 
Il romanzo ha come motore del suo stesso la racconto la possibilità, ogni personaggio è o, meglio, potrebbe essere qualcosa (la dicotomia tra storia e poesia della Poetica di Aristotele) che sarà oppure no: questo senso di potenzialità e possibilità è il luogo in cui abitano Chisciotte, Bloom, Shandy, Ivan, Madame Bovary, Ida, Useppe etc etc e questo senso di possibilità è in Dostoevskij portato alle estreme conseguenze. Nel paragrafo precedente (V) parlavo della libertà come cardine dei FK: la libertà è un concetto complesso, ambiguo, polisemico che, se guardiamo solo da punto di vista religioso, diviene – per forza, perché la religione è questo – obbedienza al bene, alla bellezza e a Dio. Ciò, però, riguarda la mia vita privata di uomo, e non la mia esistenza di scrittore e di lettore. Quindi la semplice ipotesi di romanzo come esperienza religiosa produce in me un impoverimento ermeneutico, mentre la possibilità, l’apertura, è rappresentata dalla possibilità di leggere e rileggere e riguardare il romanzo da una prospettiva sempre nuova: il sacro è il regno dell’obbedienza, il romanzo è il regno della possibilità; ed io posso -leggendo un romanzo- trovare una visione religiosa, cristocentrica, buddhista, islamica della realtà, ma la bellezza del romanzo sta nel suo non esaurirsi, nel suo continuare a interrogarci costantemente. Se osservo il romanzo come un testo sacro lo impoverisco, mentre se leggo e analizzo un testo sacro come un romanzo trovo qualcosa di nuovo ogni volta, qualcosa che sposta un poco più in là la mia interpretazione e la mia possibilità di comprendere. D è uno scrittore religioso, ma non è un profeta, è un romanziere, è della schiatta di quelli fedeli a Chisciotte, di quelli che escono nel mondo e lo guardano e, stupiti dalle foglioline, le vorrebbero descrivere una a una, senza domandarsi se dietro ci sia un Creatore, un Demiurgo o un niente, anzi, ventilando la possibilità infinita che ci possano essere/coesistere – è questo il bello del romanzo – tutte queste cose insieme.
Il romanzo poi non è teologico, non si chiede la sostanza ultima delle cose, ma è economico, ovvero si chiede in che relazione stiano le cose tra di loro, e quali siano i possibili rapporti, azioni e movimenti esistenti tra idee, persone, cose, paesaggi. Ciò che interessa al romanziere, e a D in particolare, è l’economia del mondo, come si muove il mondo e i suoi personaggi, non gli interessa cosa sia il mondo, ma le azioni che accadono all’interno di esso; il romanziere non vuole tanto conoscere la sostanza ultima, il mistero nascosto della realtà, ma è interessato a come si ordinano le cose, come avviene che questo sia il mondo in cui viviamo: egli, infine, non è un mistico, ma predilige  l’ascetismo, se proprio vogliamo trovare una possibile corrispondenza religiosa.  Pensiamo a Par. XXXIII dove Dante che non penetra, non si consuma nel mistero di Dio, ma lo osserva, lo razionalizza, lo scrive, lo organizza in sillabe, 11, in versi (terzine). Nell’atteggiamento di Dante esiste una relazione economica tra numero di parole e cosa che viene descritta, niente di più lontano dal mistico. Il profeta è un mistico, D mette nei suoi romanzi molti personaggi che hanno un movimento e un modo di esistere mistico: Kirillov dei Demoni, Alesa stesso, il principe Myskin, ma non dobbiamo mai – come lettori – confondere il romanzo con i suoi personaggi, i personaggi sono dentro il romanzo, non possono essere estrapolati, non possiamo far dire loro le stesse cose fuori dal contesto in cui sono. I personaggi esistono all’interno di quella narrazione, sono vivi perché sono dentro quelle relazioni, dentro quel disegno, dentro quel movimento della storia. Ecco che torna il tema dell’economia del romanzo, che è un tentativo di rendere conto delle quantità e delle qualità, una idea che forse sta tutta nella scrittura, primo tentativo di mettere ordine e nei magazzini pieni di vettovaglie e nei racconti dei reduci da una guerra, e che il romanzo porta alle sue conseguenze più estreme e, mi verrebbe da dire, necessarie.  Proprio questo possibile contarsi, questo mettersi alla prova in un luogo aperto è il segreto movente di ogni romanzo, ovvero quello di fornirci «una possibilità di noi stessi» (Auerbach).

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte IV

di Demetrio Paolin

Ho l’impressione che la lunga parentesi su Zosima (FK, Parte seconda, Libro Sesto, cap II e III) e la sua vita sia una sorta di risposta al poema dell’Inquisitore, cioè che in qualche senso D produca un effetto di rifrazione tra le due storie, o ancora di più tra i due personaggi – la strana coincidenza tra Ivan e la bellezza delle foglioline e Zosima e la bellezza del creato, che quasi pre-sente e partecipa al progetto di salvezza di Dio. 
Non ci sono dubbi per l’orecchio e l’occhio, anche quello disattento del lettore, di quanto narrativamente siano bellissime le pagine del Grande inquisitore (FK, Parte seconda, Libro Quinto, cap. V) e quanto invece la storia di Zosima, pur con dei momenti potenti, rappresenti una sospensione della trama centrale. Abbiamo lasciato la casa dei Karamazov nel pieno di una crisi che prelude a qualcosa di terribile, ma D vuole che leggiamo queste pagine sulla vita e la morte di questo monaco. È una sosta, è un momento dal punto di vista dell’intreccio e dello sviluppo del racconto non comprensibile, soprattutto perché l’intera vicenda dalla vita del monaco occupa l’intero libro sesto. 
Più sopra ho sostenuto che la vita di Zosima è la risposta alla Leggenda dell’Inquisitore, e come le pagine dell’uno si ripercuotono nelle pagine dell’altro, mi pare che in questo senso a far lo specchio siano appunto i capitoli che precedono la vita dello Zosima. In particolare, nel libro quinto assistiamo a   tre grandi dialoghi 
1) Alesa e Ivan – il tema del male e la sofferenza dell’innocente;
2) Inquisitore e Gesù – il tema della libertà;
3) Ivan e Smerdjakov – il tema della libertà e del fare il male.
E a questo trittico che la storia di Zosima fa specchio. D ha portato alle estreme conseguenze la sua riflessione, si è trasformato nell’avvocato del diavolo, ha condotto al massimo grado di complessità la visione di una storia e di una vita in cui è convocato l’ospite inquietante: il nichilismo. 
In queste pagine   la sofferenza degli innocenti, la scelta tra libertà e salvezza, tra libertà e possibilità di male, e la liceità di fare male diventano centrali: è questo il crogiolo ideologico in cui si prepara il parricidio, ma qui il parricidio è non più simbolico, ma diventa qualcosa che deve essere compiuto: se Dio non esiste tutto è lecito, se il padre viene ucciso tutto è lecito: io noto una strana conseguenza, una relazione stretta e indistricabile, tra l’atto di restituire il biglietto di Ivan e la decisione di Smerdjakov di uccidere il patrigno dopo il dialogo con Ivan; entrambi si escludono, si mettono fuori dal consenso umano, entrambi scelgono una strada che non è rappresentabile, che non è narrativamente raccontabile. Entrambi escono di scena. Questo ha un riverbero nella struttura del libro: sia Ivan che Smerdjakov sono gli unici due personaggi che escono di scena non “visti”: il suicidio di uno è raccontato durante il processo, come fatto di colore all’interno della grande messa in scena, che avviene in aula; Ivan è evocato da Katerina, da Alesa, da Liza ma non è più visto. Le domande di Ivan rimangano inevase dalla sua stessa assenza, a meno di non leggere la storia di Zosima che è suo contraltare. Quale è il tema di FK libro sesto? Se dobbiamo riassumerlo in due parole, direi: il bene. 
Provo a chiarire la mia affermazione che immagino sia percepita come apodittica. Il nucleo della riflessione di Ivan si può riassumere in una sorta di interrogativo refrain: Siccome c’è il male, io che posso farci? Siccome i bambini soffrono, io che posso farci? Dato che il nobile fa sbranare dai segugi il bambino, io che posso fare? La sua riflessione, logica, stringente, bellissima ci porta dire: “Che possiamo fare?”. La domanda che ruota intorno a tutti i discorsi di Ivan è legata a Dio. Il problema della sofferenza è un problema di Dio e della sua teodicea: Perché Dio se c’è il male? 
È questo l’abisso a cui Ivan ci consegna, subito dopo il tema del grande Inquisitore, che è una riflessione sull’arbitrio, la libertà: in questo elemento abissale dell’essere liberi c’è il male, il male non viene da Dio, ma non è neppure di Dio, è qualcosa che si produce perché infine c’è la libertà; la libertà è ciò che produce la possibilità affinché noi possiamo fare qualcosa; il perdurante, lungo tutto il dialogo, silenzio di Cristo, che è il silenzio di Dio, in cui ogni credente è gettato quotidianamente che è tanto più tremendo tanto si ha fede, perché avvolge ogni azione, singolo gesto, questo silenzio non è silenzio di assenza, di pianto o di stupefatto mutismo davanti al male, è il prezzo della libertà. È questo il prezzo della libertà che è disposto a pagare Smerdjakov, a lui D affida le conclusioni più logiche e terribili del ragionamento di Ivan, spingendolo oltre ciò che Ivan stesso ha potuto pensare.
Zosima e la sua storia mostrano al lettore che anche il bene viene dalla libertà; quindi, se vogliamo, il bene è qualcosa di estraneo a Dio, così come il male, entrambi, infatti, sono concetti che Dio nella sua terribilità e altezza non percepisce, potremmo affermare con un paradosso: Se c’è Dio perché il bene? Se Dio esiste ogni cosa avviene già per un fine, nonostante questo noi compiamo gesti di bene, dice Zosima, noi ogni giorno produciamo semi che morendo danno frutto. La questione che dobbiamo porci è: Perché facciamo il bene? 
Se il mondo fosse a misura di Dio, la sua misura sarebbe la perfezione, e invece il mondo (potremmo dire la realtà, l’esistente) è a misura della libertà, e quindi bene e male sono due facce della libertà, così come peccato e assoluzione, colpa e giustizia: l’assoluta totalizzante libertà è il fulcro di queste pagine, anche quelle che preludono al parricidio, e il parricidio a questo punto diventa il momento in cui gli uomini decidono di essere liberi, di essere adulti, di essere loro stessi. Smerdjakov deve uccidere il padre per essere se stesso, e così dovrebbero fare tutti: senza la morte del padre non è possibile nessun romanzo ovvero non è possibile nessun ragionamento sull’essere uomini nel mondo, e per compiere questo omicidio, rituale o reale che sia, è necessario capire che né male né bene dipendono da Dio, che Dio è in un certo modo superiore, lontano rispetto a questo, ma che male e bene attengono alla sfera dell’uomo ovvero alla libertà.
Mi rendo conto che questa lettura dei FK potrebbe sembrare una lettura troppo religiosa, troppo legata ai temi della fede, immagino che questo possa essere in qualche modo limitante per chi legge. Credo, quindi, che sia necessaria una precisazione che il lettore troverà nel capitolo successivo.

In Schede

Le stagioni di Iris – rec. a “Vuoto” di Ilaria Palomba

di Valentina di Corcia

Ci si avvicina a questa storia come lo si farebbe a un istrice: migliaia di aghi acuminati sono pronti a schizzare per colpirti in punti dolorosissimi. Quest’istrice resta al riparo, si difende come può, attacca a prescindere e sa stupirti con l’intensità del dolore che è in grado di infliggerti. Tuttavia, il dolore che si sente è qualcosa che ci appartiene e, pertanto, siamo a disposti a sopportarlo man mano che leggiamo. Anzi, più leggiamo e più vogliamo stare nella storia come Iris.

In questo racconto a due voci.  Iris e Ilaria, si alternano fino a fondersi nell’io narrante di una narrazione in cui protagonista prepotente è il vuoto. Nato da un dolore mai superato, che traccia un solco tra prima e dopo, questo non spazio è capace di inglobare tutto, nutrito dai sensi di colpa, di inadeguatezza, ed espandersi fino a prendere forma e diventare “doppio”. Noi sentiamo che le vicende di Iris sono profondamente innervate della vita stessa di Ilaria e ciò non ci dispiace affatto, anzi in una certa misura ci consola, perché è come se venissimo a sapere che, se un giorno tutto il dolore e tutte le afflizioni di Iris saranno le nostre, potremo affrontarle e combatterle. Infine, vivere ancora.

Palomba riempie il vuoto attraverso la costruzione di triangolazioni amorose. La più stabile è quella composta da Iris, suo padre e Federico. Sono le sole figure maschili di riferimento a cui riconosca una certa autorità nonostante tutta la serie di conflitti che passano nei loro rapporti. Forse, è proprio la dialettica del conflitto a rafforzarle. Palomba si inserisce con efficacia nella ormai lunga serie di narrazioni domestiche, che entrano e sfondano le pareti dei rapporti familiari. Ma Palomba pare farlo per erigere di nuovo qualche muro rovinato sotto i colpi della dissoluzione del sé. Del buddismo che attraversa in filigrana tutta la storia pare avere recuperato questo dato: un’ultima fiducia nella possibilità che le cose – persone e oggetti (forse persone come oggetti) possano ricomporsi. Gli altri uomini, invece, si reggono su una certa sottomissione masochistica (l’unicum è Giulio, amato e perso, troppo puro per poter sopravvivere a certe dinamiche guaste.)

Il vuoto è la scala per il paradiso, il desiderio di libertà.

Con “Vuoto”, Ilaria Palomba conferma quella che fino ad ora poteva essere un’intuizione: ci troviamo di fronte a una nuova generazione di cannibali che, a differenza degli originali, usano il filtro del gotico.

Gotico e cannibalico si sono impastati pur mantenendo distinte le proprie caratteristiche, che emergono da richiami diretti o da suggestioni evocate dalla scrittura. E ancora una volta torna l’elemento ancestrale: il romanzo contribuisce ottimamente alla crescente attenzione per certi fatti del passato, dalle leggende del territorio agli eventi di cronaca nera che da un lato hanno generato una schiera di nuovi mostri, mentre dall’altro ci hanno restituito le vittime sotto forma di nuove icone pop. Cristallizzate in quelle immagini, sempre uguali a sé stesse, passate centinaia di volte ai tg; vicende che possono essere recuperate e riaffidate alla memoria collettiva attraverso l’upgrade della nuova consacrazione mainstream: il podcast. Ma Palomba, così come Serena Vinci, non scade mai nella facile restituzione mediatica della demonologia appulo-lucana, dove maciare, fatture e serpenti diventano puro folklore, mentre sono cultura e storia. E ancora una volta torna l’elemento ancestrale: il romanzo contribuisce ottimamente alla crescente attenzione per certi fatti del passato, dalle leggende del territorio agli eventi di cronaca nera che da un lato hanno generato una schiera di nuovi mostri, mentre dall’altro ci hanno restituito le vittime sotto forma di nuove icone pop. Cristallizzate in quelle immagini, sempre uguali a sé stesse, passate centinaia di volte ai tg; vicende che possono essere recuperate e riaffidate alla memoria collettiva attraverso l’upgrade della nuova consacrazione mainstream: il podcast.

Con Palomba siamo autorizzati a fare un piccolo salto indietro nella storia del romanzo italiano contemporaneo: a metà degli anni Novanta Isabella Santacroce folgorò una generazione con Fluo, romanzo che apriva la cosiddetta Trilogia dello spavento.  Come i personaggi di Santacroce vivono un’alterazione frenetica, tra discoteche ed esperienze borderline nella Riccione all’apice della sua stagione psichedelica, la Iris di Palomba, bramosa di libertà, simile alla Belle di Povere Creature, segue il sentiero delle sue cicatrici, tracciando la sua mappa: definisce una nuova geografia dell’inquietudine.

Alle notti romane, avvolte da un’aura speciale, potremmo dire misterica, alterna i paesaggi di una Puglia aspra e sonnolenta; tra estati di ritorno, paesini appartati e città (Bari, specialmente) quasi insopportabili. Ci sono deserti di sabbia e calce bianca, capaci di imprigionare nel torpore di una vita tanto lenta da diventare immobile. Di sicuro lontana da certe “cartoline” instagrammabili. Ci sono poi le strade urbane, i quartieri pesanti della Bari che accoglie Iris non più ragazzina e quasi donna: è qui che tutto si fa difficile. Per Palomba la Puglia è bella nella dialettica infanzia-paese e si rovina in quella che va dallo stadio adulto allo spazio urbano.

Ilaria Palomba

Vuoto

Bari, Les Flâneurs Edizioni, “Élite”, 2022

€ 18,00

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte III

di Demetrio Paolin

In FK, Parte Prima, Libro Terzo, cap. III, leggiamo: «Ma innamorarsi non significa amare. Ci si può innamorare e odiare». E poi continuiamo: «Cammino e non so se sono capitato tra tanfo e vergogna o tra luce e gioia. È questa la vera disgrazia, che al mondo tutto è mistero». Poi poco più avanti leggiamo: «Perché sono un Karamazov, io. Perché se finisco nell’abisso, mi ci tuffo a capofitto a testa in giù e piedi all’aria, e a caderci in quel modo umiliante è una soddisfazione, per me, addirittura una bellezza». E ancora: «La bellezza è una cosa spaventosa e tremenda! Spaventosa perché non definibile, e definirla non si può perché Dio ci ha lasciato enigmi. […] Troppi enigmi opprimono l’uomo su questa terra». 
Il movimento della prosa di D è, a mio avviso, affascinante: è uno continuo correre, una breve ripresa di fiato, e nuovamente al massimo di frequenza possibile, alcune volte a questa velocità, che è una vera e propria furia, incontriamo frasi come quelle appena proposte, che ci costringono a un inciampo o a una frenata brusca. A pronunciare queste parole è Dimitri, che è il personaggio a cui presto più attenzione. Dimitri, lontano dal fascino oscuro di Ivan e dalla luce di Alesa, mi si è imposto come il grande personaggio del romanzo, come colui che veramente uccide il padre, che compie il parricidio per mettersi in viaggio verso la coscienza di sé. 
D fa di tutto per convincerci che sia Dimitri a commettere l’omicidio, perché narrativamente è lui che prende il largo, è lui che farà l’esperienza dell’altrove. Queste frasi citate racchiudono, in maniera precisa, la figura sfuggente di Dimitri o, meglio, racchiudono il modo in cui lui si sente: sono la voce del personaggio, non sono né la voce del narratore (che sappiamo “segue” per Alesa), né quella di D che ho sempre pensato detestasse, amandolo Ivan. 
Dimitri descrive una forma di tensione in cui amore e odio sono mostri che agiscono così nell’intimo dell’essere da renderli simili: si ama ciò che si odia più profondamente, perché ciò che si ama mostra di te l’abisso che non vuoi vedere, mostra la parte di te più terribile, quella che tieni nascosta quando cammini per strada o siedi al bar a sorseggiare il caffè; l’amore diventa odio, perché l’amore ti mostra la tua totale insignificanza rispetto al mondo, alle cose, cosicché l’unico modo che tu hai per impossessarti di loro è odiarle più profondamente; è ciò produce luce e gioia, tanfo e vergogna, l’uomo non è buono, o cattivo, è una mescolanza in cui l’abietto sta con la bellezza, e la bellezza arriva a toccare il punto più basso della vergogna.
Si può desiderare qualcosa, sentirla come necessario al tuo essere, e sapere che ciò che desideri è sbagliato, disgustoso, possiamo amare ciò che ci disgusta, ciò che è considerato sbagliato dalla società e della morale, lo possiamo amare perché in parte lo odiamo: ne facciamo così esperienza che diventiamo noi stessi disgusto abiezione, diventiamo peccato, facciamo diventare ciò che amiamo peccato: e il peccato diventa bellezza, perché conserva intatta, in qualche angolo nascosto, la gioiosa luminosità dell’amore e la sua purezza, di quando vedemmo la bellezza prima che ogni singola parola la corrompesse. 
La bellezza diventa tremenda, e solo nell’accettare la mostruosità di questa bellezza potremmo comprendere a fondo la possibilità che la bellezza salvi il mondo, perché la bellezza in D non ha nulla della quieta immobilità greca, ma è contemplare in sé l’orrendo, il negativo; è questo l’enigma del nostro essere: la tensione o il desiderio a fare il bene, e il compiere nelle opere nostre il male, come dice Paolo: «Io scopro allora questa contraddizione: ogni volta che voglio fare il bene, trovo in me soltanto la capacità di fare il male».